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Fatevi la vostra finanza etica: quel che ho detto alla Bottega “Oscar Romero”

Il 19 marzo sono andato alla Bottega del commercio equo Oscar Romero di Cagliari a parlare di finanza etica.

Era l’incontro conclusivo di un corso per futuri operatori della Bottega e in generale per volontari che volessero dotarsi di strumenti più approfonditi, quindi non mi sembrava il caso di andare lì semplicemente a parlare di Banca Etica, e poi mi pareva anche utile non tanto dare le mie risposte, quanto fornire alle persone degli strumenti che poi potessero utilizzare da soli.

Finanza etica: fatevi la vostra

In qualche modo si trattava anche di una scelta obbligata perché, se si legge un po’ in giro, una definizione comunemente accettata di finanza etica non c’è. È chiaro che esiste il Manifesto della Finanza Etica e che politicamente è un punto di riferimento imprescindibile, però dal punto di vista delle definizioni ha un po’ il difetto di essere tautologico: la finanza etica è la finanza etica nel senso che decidiamo noi – e chi siamo noi? quelli che fanno la finanza etica. Dall’altra parte ci sono le definizioni in qualche modo ufficiali – per esempio la legge italiana ha la sua

51. Dopo l’articolo 111 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, è inserito il seguente:
«Art. 111-bis. — (Finanza etica e sostenibile). — 1. Sono operatori bancari di finanza etica e sostenibile le banche che conformano la propria attività ai seguenti principi:
a) valutano i finanziamenti erogati a persone giuridiche secondo standard di rating etico internazionalmente riconosciuti, con particolare attenzione all’impatto sociale e ambientale;
b) danno evidenza pubblica, almeno annualmente, anche via web, dei finanziamenti erogati di cui alla lettera a), tenuto conto delle vigenti normative a tutela della riservatezza dei dati personali;
c) devolvono almeno il 20 per cento del proprio portafoglio di crediti a organizzazioni senza scopo di lucro o a imprese sociali con personalità giuridica, come definite dalla normativa vigente;
d) non distribuiscono profitti e li reinvestono nella propria attività;
e) adottano un sistema di governance e un modello organizzativo a forte orientamento democratico e partecipativo, caratterizzato da un azionariato diffuso;
f) adottano politiche retributive tese a contenere al massimo la differenza tra la remunerazione maggiore e quella media della banca, il cui rapporto comunque non può superare il valore di 5.

ma qui il problema è che è piuttosto pericoloso affidare alla legge queste definizioni (e se poi cambia la legge?) e comunque possono rimanere delle aree grigie non da poco: cosa sono esattamente i sistemi di rating etico internazionalmente riconosciuti? Se cinque banche che finanziano il nucleare si fanno un sistema di rating basato sull’identificazione di energia nucleare con il minore consumo di combustibili fossili, diventano etiche? Probabilmente no perché non avrebbero le altre caratteristiche, però magari ci sarebbero i termini per confondere l’opinione pubblica? Non è comunque una cattiva definizione, considerato anche che l’estensore dell’emendamento, Giulio Marcon, è uno che ne capisce, ed è molto meglio di altre definizioni blandamente basate su consensi internazionali che si trovano in giro: per esempio il sito della Borsa Italiana dice che

Sebbene non esista una definizione univoca di finanza etica, in generale con tale termine vengono indicati sia la microfinanza e il microcredito, rivolti alle fasce di popolazione più deboli, che l’investimento etico, soprattutto rivolto alle iniziative che operano nel campo dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile, dei servizi sociali, della cultura e della cooperazione internazionale (come i fondi etici tipici nei mercati più sviluppati come quello anglosassone).

Anche in questo caso non è una cattiva definizione (e anche l’articolo è buono) peccato però che a rigore non ci sia compresa Banca Etica (che non fa solo microcredito e però non è nemmeno anglosassone). Peggio se la cava la Treccani:

Allo stato attuale l’espressione è intesa in almeno tre diverse accezioni: indica, infatti, sia gli intermediari finanziari che destinano una parte dei profitti dell’attività svolta a scopi di beneficenza, sia quelli che assumono partecipazioni nelle imprese al fine di orientarne attivamente la gestione verso una maggiore responsabilità sociale, sia quelli che dichiaratamente non investono in imprese che abbiano violato alcuni criteri etici individuati a priori dai loro clienti.

E così via: la notazione dell’eterogeneità delle realtà comprese sotto il nome di finanza etica è frequente e, in alcuni casi, la stessa appropriatezza del termine è messa in discussione.

E quindi, con faccia di bronzo che sarebbe stato opportuno riservare a argomenti meno rischiosi, ho deciso di fabbricarmi il mio strumento di lavoro da proporre ai futuri volontari. Alla fine qualcuno mi ha detto: non sapevo che si potesse catalogare così la finanza etica, non lo avevo mai sentito prima. Sfido: me l’ero appena inventato io! Però avevo studiato – giuro! – solo che non posso citare nessuna autorità a sostegno della mia lettura, o al contrario: ho colto l’occasione per distillare la memoria di tanta gente diversa che mi ha insegnato ognuno qualcosa, che mi ha raccontato le sue esperienze, che mi ha detto come la pensava, nei vent’anni – così tanto! – da quando mi occupo di finanza etica.

Dunque, cosa ho fatto? Ho preso un grande foglio e ho disegnato una linea orizzontale.

Il racconto dell’economia civile

Poi ho detto, per cominciare, che c’è una linea narrativa che racconta la finanza etica partendo da Aristotele e dalla sua distinzione fra oikonomia crematistica, fra beni che servono per garantire l’esercizio della vita quotidiana, il benessere della famiglia, la vita buona e all’estremo opposto l’accumulazione di ricchezze più o meno fine a se stessa. E prosegue, questa linea narrativa, raccontando come in tutte le epoche la tensione fra questi due dimensioni – e fra i differenti usi del denaro che ne conseguono – abbia comportato un tentativo di umanizzare la finanza e di riportarla più vicina ai meccanismi produttivi dell’economia reale – non dell’economia della speculazione finanziaria – e alle esigenze delle persone: l’abbandono del divieto dell’usura in favore dell’uso degli strumenti finanziari come strumenti per l’emancipazione, l’invenzione delle banche da parte dei Francescani, in contrapposizione ai banchi dei grandi mercanti italiani per dare credito alle donne, alle famiglie, agli umili, Antonio Genovesi e la prima cattedra di economia europea – l’economia civile di Genovesi in contrapposizione alla mano invisibile di Adam Smith – e poi la fondazione delle casse mutue, dei crediti cooperativi e rurali dentro i grandi movimenti operai dell’Ottocento e del Novecento e poi, più vicino a noi, la MAG  e infine la Banca Etica.

È una linea narrativa meridionale, cattolica, che sostanzialmente inserisce la finanza etica in generale dentro un più grande sforzo di umanizzazione dell’economia e Banca Etica specificamente dentro il Terzo Settore. È una narrazione che vede la finanza etica come strumento per il bene della Persona (con la P maiuscola) e per il bene comune. È una linea narrativa nella quale, immagino, Zamagni, Leonardo Becchetti o Luigino Bruni si troverebbero abbastanza a loro agio.

È una linea narrativa interessante e piena di elementi reali, ma è anche una narrazione che ha i suoi problemi. Intanto, ha un sapore un po’ troppo finalistico, con questa sua carrellata attraverso i secoli che ricapitola tanti fenomeni diversi e li collega in uno schema complessivo che, guarda caso, torna proprio a fagiolo con le cose che facciamo adesso. E ha un certo rischio di appropriazione culturale, ricapitolando nell’albo di famiglia realtà che, magari, non sarebbero proprio contente di essere incluse nella parentela, se potessero esprimere la loro opinione (che so, i probi pionieri di Rochdale da una parte e i francescani dall’altra, poniamo). E, in realtà, è una linea che recupera le casse rurali ma perde i primi fondi etici, e non è poco.

Il racconto della responsabilità sociale di impresa

E quindi, senza troppo soffermarmi su questi difetti, ho invece poi raccontato che c’è un’altra linea narrativa. Questa non prende le mosse all’inizio della civiltà occidentale ma, più prosaicamente, dagli Stati Uniti fra il XIX e il XX secolo, dai movimenti per la temperanza, dal desiderio non solo di non consumare Bacco, Tabacco e Venere ma di non dar loro nemmeno un centesimo in finanziamenti, e quindi la nascita dei primi fondi etici basati su criteri di esclusione (non si finanzia la produzione di alcool, la droga, la pornografia, il tabacco…), e poi il Vietnam, le lotte pacifiste, il rifiuto di finanziare le produzioni di armi, la nascita di fondi di investimenti etici più raffinati basati anche su criteri positivi (escludiamo questi e finanziamo invece quelli) e in seguito di banche e altre istituzioni finanziarie settoriali (le banche verdi, ecologiste…) e, sul versante delle aziende, l’adozione di criteri di responsabilità sociale che le abilitassero al rapporto con questi consumatori esigenti.

Questa è una narrazione settentrionale, protestante, che non è interessata (o non molto) al bene comune in generale ma piuttosto alla soddisfazione dei criteri di preferenza, positivi e negativi, del gruppo politico o di opinione a cui fa riferimento: ci sono oggi fondi etici specializzatissimi, ritagliati sulla visione del mondo di nicchie anche piuttosto settoriali di risparmiatori (purché danarosi). È una narrazione interessata all’Individuo e alle finalità politiche specifiche del gruppo di riferimento. È una linea narrativa, immagino, nella quale molti funzionari di grandi organizzazioni o agenzie internazionali si troverebbero a proprio agio.

Oh, e a questo punto mi sono anche avventurato a spiegare perché – me l’avevano chiesto e io non sono abbastanza prudente da glissare – una finanza orientata alla Persona e una orientata all’Individuo non siano la stessa cosa, ma questo, per vostra fortuna, ve lo risparmio.

Sono due narrazioni secondo me abbastanza incompatibili, anche se Riccardo Milano nella scheda sulla finanza etica della serie di Capire la finanza fa un ottimo lavoro nel tentare di conciliare queste due tradizioni. Naturalmente qualcuno avrebbe voluto sapere, lungo questa linea, dove si dovesse collocare davvero la finanza etica, o perlomeno, dove mi sarei voluto collocare io. Poteva uscirne fuori subito una cosa interessante se avessi controbattuto chiedendo a ciascuno di loro dove si volessero mettere. E c’erano delle ottime risposte, per esempio provare a raccontare direttamente di Banca Etica, a quel punto, o di come le banche etiche di terza o quarta generazione presentino molti elementi tratti dall’una o dall’altra impostazione, però era, ancora una volta, un modo di chiudere la discussione in modo consolatorio: tesi, antitesi, sintesi.

La mappa e il territorio

Io invece volevo fare un’altra cosa: non provare a definire l’equazione Banca Etica uguale finanza etica, e nemmeno definire il milieu generale della finanza etica in Italia includendo anche le MAG, quanto definire un continuum che mettesse quelle realtà che normalmente vengono definite di finanza etica (e che, diciamolo a scanso di equivoci, anche secondo me sono la finanza etica) all’interno di un cosmo più ampio che spieghi non solo tutte quelle realtà che si confrontano con la responsabilità sociale e ambientale e che, per quanto si possa non essere d’accordo con le soluzioni che adottano, non possono essere tutte liquidate sotto l’etichetta di greenwashing. E poi ci sono altre domande: perché tanta gente ritiene che fare microcredito sia di per sé fare finanza etica? Quelli che lavorano con le monete alternative hanno spesso una forte impostazione politica e molte volte ritengono di stare cambiando il mondo: vuol dire che credono di stare facendo finanza etica e probabilmente non lo credono solo, ma lo fanno. Piuttosto che reagire a questa varietà tracciando dei confini, mi sembrava utile per i volontari essere in grado di ragionare in termini di relazioni.

E quindi cosa ho fatto? Ho preso il foglio e ho tracciato una linea verticale.

Se la prima riga, orizzontale, era quella delle finalità, questa era quella delle metodologie.

Cosa c’è su questa linea? A un estremo ci sono tutte quelle realtà che ritengono che fare finanza etica voglia dire aderire a una complesso di comportamenti standardizzati, a dei protocolli di comportamento che siano, in sé, espressivi delle finalità che si vogliono perseguire: il metodo è già contenuto e deve esserci coerenza fra finalità e strumenti impiegati, fra valori perseguiti e comportamenti agiti. Siamo nel campo delle carte d’identità definite dalle sette caratteristiche elencate dal Manifesto della finanza etica, per esempio, oppure dai cinque pilastri sui quale si ritrovano le istituzioni finanziarie aderenti alla Global Alliance for Banking on Values o da tutti gli altri vari patti fondativi delle federazioni di banche etiche continentali o mondiali che ci sono state o ancora esistono.

Sono normalmente visioni che prevedono una adesione totale ed esclusiva dell’organizzazione ai principi che definiscono la finanza etica: è il settimo principio del Manifesto (Richiede un’adesione globale e coerente da parte del gestore che ne orienta tutta l’attività) o il punto di raccordo fra i pilastri citato dalla GABV, quello che richiede che quei principi siano posti al centro, al cuore, della vita dell’azienda.

Molte delle istituzioni finanziarie che si ritrovano a questo estremo usano strumenti finanziari simili a  quelli che usano gli operatori tradizionali – un conto corrente o un mutuo sono un sempre un conto corrente o un mutuo, chiunque li proponga al pubblico – e hanno bisogno di segnalare la loro differenza facendo riferimento al modo col quale usano quello strumento. Oppure sono realtà che temono l’assimilazione e il greenwashing degli altri operatori, e sentono il bisogno di tracciare il confine.

All’estremo opposto, invece, ci sono tutte quelle realtà che non sembrano avere fatto nessuna riflessione generale sulle dimensioni di principio o sul senso dell’attività finanziaria, ma che invece ritengono che la finanza “etica” è quello strumento che, qui e oggi, risponde alle mie esigenze. Stanno da questa parte tutti coloro che si sono fabbricati il loro specifico strumento finanziario e usano solo quello – non è che hai bisogno di una carta d’identità che ti distingua dagli altri, perché già lo strumento è tuo proprio e ti identifica – oppure gli operatori tradizionali che offrono anche prodotti “etici” e, infine, coloro che in qualche modo ritengono che le finalità umanitarie o benefiche che perseguono, incrociate con l’uso di strumenti finanziari più o meno alternativi, siano sufficienti a definire l’etica dell’impresa, senza doversi sforzare oltre un certo punto nel definire una propria cultura aziendale etica, come le organizzazioni di beneficenza o un certo tipo di imprese che lavorano sulla cooperazione Nord-Sud – o nelle periferie europee – con il microcredito o altri strumenti simili. Naturalmente, non sto dicendo che tutte queste organizzazioni non hanno valori: tutti si doteranno, per dire, di una carta dei valori, di manifesti politici o di definizioni della propria cultura d’impresa e molti saranno molto fortemente motivati idealmente: sto dicendo che però questo non comporta il porre l’esplicitazione del rapporto fra ideale e strumenti come il punto fondativo dell’identità aziendale, quanto piuttosto come una necessità organizzativa.

Durante la discussione che ne è seguita abbiamo anche provato a riportare sul diagramma le varie realtà che potevano venirci in mente, e anche a ragionare su come inserire le realtà in qualche modo truffaldine (su questo punto, la soluzione è stata quella di pensare di aggiungere una terza dimensione, quella del valore sociale prodotto, che nella serata è stato identificato con stare sopra o sotto il tavolo sul quale era poggiato il cartellone). Sono stato incerto se, in questa sintesi, riportare anche delle organizzazioni concrete, con nome e cognome, a rischio di sollevare polemiche, tanto più nei casi di realtà che in fondo non conosco dall’interno. Alla fine scelgo di inserire dei termini generici – esclusa Banca Etica e le MAG – più che altro per aiutarmi ancora nello spiegare cosa intendo e, naturalmente, per aiutare commenti e contributi qui sul blog.

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