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La tragedia barbaricina

Visto che io sono riuscito a vederlo nella prima recita cagliaritana e lo spettacolo resta al Teatro Massimo fino a domenica, mi sembra opportuno invitare tutti ad andare a vedere Macbettu, adattamento a cura di Alessandro Serra del Mac… ehm, della tragedia scozzese di Shakespeare: è già stato a Cagliari l’anno scorso, credo, ma probabilmente ci sono molti che non l’hanno visto.

È evidente che la prima cosa che viene detta a proposito di Macbettu, a partire anche dal comunicato stampa e da trailer come quello di qui sopra, è che l’allestimento ha una fortissima connotazione barbaricina, a partire dal fatto che è recitato in una parlata della quale non sono riuscito a identificare direttamente la variante precisa (direi non nuorese e certamente non oranese, ma la cadenza della recitazione cambia l’accento e potrei sbagliarmi), ma certamente appartenente alla Sardegna interna.

A me, sinceramente, il puro fatto che Macbettu fosse «la tragedia scozzese in sardo» non mi è sembrato direttamente significativo: fermarsi a questo è roba da milanesi che inseguono tutte le mitologie sulla Sardegna o da pellitti nazionalisti e provinciali, ma se si può ambientare Shakespeare negli anni ’20 o a Venice Beach o addirittura girarlo al femminile (c’è un vecchio articolo del blog che ne discute, proprio a proposito di un Macbeth cinematografico) e se si considera normale tradurlo in italiano o tedesco o francese non si vede perché farlo in sardo e ambientarlo in Barbagia debba sembrare un’operazione degna di nota in sé.

Casomai ciò che è notevole dell’allestimento di Serra (a scanso di equivoci, lo spettacolo mi è piaciuto moltissimo) è quel che fare la tragedia in sardo e con una ambientazione barbaricina gli ha consentito di ottenere, da un punto di vista teatrale, artistico ed espressivo. Mi segno qui un paio di cose:

  • mette in evidenza la dimensione incivile e barbarica e primitiva dell’ambientazione e del giudizio di Shakespeare sugli scozzesi dell’alto medioevo che è sotteso al testo;
  • permette di enfatizzare la dimensione maschile, virile, della tragedia, portando allo scoperto la nervatura di violenza interna a un gruppo di uomini abituati al maneggio delle armi (tutti i protagonisti della tragedia sono guerrieri e molti sono capifamiglia); allo spettatore sardo la balentia suggerita dalla messa in scena e dagli atteggiamenti degli attori è evidente, ma immagino – in maniera diversa – sia così anche per gli spettatori continentali; la scelta di un gruppo di interpreti tutto maschile, anche per Lady Macbeth e le streghe, è molto coerente, funziona perfettamente e rafforza questa linea interpretativa;
  • porta allo scoperto la dimensione maschile di Lady Macbeth, le cui azioni sono – come sappiamo – del tutto contrarie alla sua posizione sociale di donna altolocata;
  • permette di gestire molto bene gli intervalli comici e grotteschi che spezzano l’azione drammatica e che in altri allestimenti scespiriani spesso stonano: qui per esempio tutto il pezzo del guardiano della porta ubriaco funziona benissimo ed è funzionale alla immedesimazione dello spettatore, non un banale riempitivo o una stranezza scespiriana che non si sa come gestire;
  • dona freschezza al ruolo delle streghe, qui presentate come coghe dalla sessualità ambigua e il cui ruolo, a metà fra incontrollabili e aliene forze burlesche del fato e parassiti malevoli della società, è uno dei veri elementi di successo dello spettacolo;
  • suggerisce naturalmente alcuni meccanismi scenici ingannevolmente semplici ma di grande effetto: per esempio la pila di pietre, simile a quelle usate in campagna per segnare la strada, che cresce a ogni omicidio come i pesi sulla coscienza di Macbeth, l’omicidio di Banquo a colpi di pietra come quello del poeta Paulicu Mossa, il giogo/porta del tancato che si fa elemento centrale della scena dell’annuncio dell’omicidio di Malcolm, o le vittime trascinate via dalla scena come carcasse di animali macellati (devo dire: sono tutti elementi più efficaci e finanche raffinati di altre cose che ho visto citare con più evidenza nei vari resoconti giornalistici, come l’uso delle maschere tradizionali di Carnevale);
  • risolve molto positivamente il problema del linguaggio scespiriano, che è pur sempre stato scritto quattro secoli fa e che in qualunque lingua che non sia l’inglese stride e rischia di suonare inutilmente enfatico: qui l’uso del sardo come se fosse “materia ancestrale” permette di asciugare il testo senza dare l’impressione di una forzatura (durante lo spettacolo ho pensato che si sarebbero potuti adattare anche i nomi degli altri personaggi – perché Macbettu ma invece Lennox, Macduff, Malcolm? – e forse anche rendere maggiormente in prosa alcuni passaggi; poi mi sono reso conto che farlo oltre un certo limite avrebbe voluto dire non mettere più in scena Shakespeare ma qualcos’altro: alla fine lo spettacolo trova un ottimo equilibrio fra il rischio del travisamento e quello della imbalsamazione del testo).

Non tutti questi obiettivi mi sembrano riusciti allo stesso modo: la caratterizzazione maschile di Lady Macbeth, per esempio, funziona ma trascura altre indicazioni presenti nel testo che suggeriscono modi diversi forse più corretti di presentare il personaggio; nel complesso, però, l’ambientazione barbaricina e la recitazione in sardo ottengono un ottimo risultato, anche perché accompagnate da una eccellente gestione dello spazio teatrale (ho accennato sopra ad alcuni meccanismi scenici, vale la pena di citare il controllo delle luci e i cromatismi di costumi e materiali, l’uso di materiali semplici e poveri ma molto efficaci nel creare lo spazio dell’azione scenica e altre soluzioni molto riuscite) e da una buonissima recitazione di tutti gli attori (applausi insistiti e meritatissimi).

Una cosa sulla quale, paradossalmente, non posso dare un giudizio è la qualità della lingua sarda: mi è parsa una ottima traduzione/adattamento, priva di quei meccanismi che finiscono per usare l’italiano mettendo la u o la s alla fine tipici di chi prima pensa in italiano e poi traduce in un sardo inventato, ma le mie competenze non sono assolutamente sufficienti per valutare realmente la lingua usata; d’altra parte il fatto che la cosa non importi – mi sono chiesto: avrebbe potuto funzionare lo stesso lo spettacolo con una qualche forma di gramelot sardo e non con un testo filologicamente corretto? probabilmente sì – mi sembra dire che il senso della messa in scena non era, al fondo, quello di tradurre Shakespeare in sardo.

Aggiungo una nota del tutto personale: chissà perché sono andato a vedere Macbettu come se fosse un’opera prima, un esordio, e sono rimasto colpito dalla estrema maturità dell’allestimento, che è già notevole in sé ma che per un’opera prima avrebbe fatto gridare al miracolo. Ho poi letto con interesse alcune cose sul percorso artistico di Alessandro Serra, che dura da almeno vent’anni e che era già significativo prima del Macbettu e a quel punto sono rimasto stupito invece di non averne mai sentito parlare, né di lui né della sua compagnia né degli attori principali di questo allestimento, comunque bravissimi e in qualche caso, scopro da Google, piuttosto affermati. Fatta la tara alla mia ignoranza e alla mia ben nota cialtronaggine, continuo a pensare come sia curioso che il teatro in Sardegna viva vite stranamente sottotraccia di cui non è facile trovare i segnali e i ricordi, come ho scritto qualche giorno fa.

(le foto vengono dal sito di Sardegna Teatro)

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