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Dal Cile del ’73 all’Oxfam

La settimana scorsa ho fatto brevemente riferimento allo scandalo che ha toccato l’Oxfam rispetto ai comportamenti di suoi operatori ad Haiti e in altre parti del modo. In quella occasione scrivevo che ero incerto se parlarne o meno:

devo decidere se sono proprio proprio fatti miei, dato che bisogna sempre ricordare che non è detto che si debba parlare su tutto.

L’italiano non è esemplare, ma il concetto credo sia chiaro e nel frattempo ho deciso: effettivamente non sono fatti miei.

A margine, però, ho fatto invece un’altra riflessione che vorrei condividere e che prende le mosse abbastanza da lontano: l’11 settembre del 1973, il giorno del golpe di Pinochet in Cile.

La gente della mia generazione e di quelle più anziane ricorderà l’impressione globale che fece il golpe, una vera emozione planetaria che per tanti di noi si trasformò in pochissimo tempo anche in scelte culturali identitarie e formative: gli Inti Illimani, Violeta Parra e Victor Jara, per esempio. Quell’influsso, però, andò a fondersi negli anni con tutti gli altri influssi latinoamericani del decennio precedente e di quello successivo, il Che e Fidel e la historieta  argentina e Oesterheld e la teologia della liberazione fino al doppio epilogo del Nicaragua e della guerra delle Malvine – da lì in poi è un’altra storia, fino a Lula, Chavez e Kirchner e all’oggi: una storia che contiene tante cose del passato ma insomma, un’altra storia.

Ma a fianco a quella emozione planetaria e  quegli elementi culturali di influenza ci furono altri ragionamenti ed effetti relativi a settori più ristretti; uno di questi, piuttosto noto, fu il  lavoro del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano, che analizzò i fatti cileni con l’occhio alla propria situazione specifica: una forza in crescita, in grado di andare in un futuro prossimo al governo e già al governo in molte città e regioni, ma senza una forza autonoma sufficiente a ottenere il 51% alle elezioni e comunque, quand’anche si fosse creato un blocco in grado di ottenere quella percentuale, accerchiata da poteri consolidati ostili e all’interno di un quadro internazionale – l’appartenenza dell’Italia alla NATO – sfavorevole. Da quella riflessione nacquero consapevolmente una serie di sviluppi politici, la possibilità del compromesso storico, l’eurocomunismo e altro, che segnarono il decennio successivo e, incidentalmente, tutto il periodo della mia formazione politica: dell’influenza del Cile sul PCI sentii parlare continuamente, sia sui giornali che in sezione e più tardi sui libri di studio. E quindi sono rimasto molto legato a quell’immagine – un gruppo dirigente politico che applica a se stesso una lezione appresa dolorosamente a mezzo mondo di distanza, ne trae rigorosamente le conseguenze e le usa per ridefinire profondamente la propria linea d’azione – fino a trarne l’idea di un paradigma di comportamento che penso debba essere applicato da tutti i gruppi dirigenti e che ha influenzato, per esempio, il mio interesse par il funzionamento delle organizzazioni.

So benissimo che ci sono una serie di letture alternative che sostengono che questa immagine rappresenti, in realtà, un mito o una semplificazione e che per esempio la linea del compromesso storico era stata già discussa almeno dal ’72, per non parlare del fatto che il significato stesso di espressioni come compromesso storico o eurocomunismo è inteso dai testimoni stessi e dai commentatori in modi diversissimi e ancora molto discussi – ancora più discussa è la loro valutazione storica, oltretutto. Ma quello che mi interessa è invece il mito, quell’immagine cristallizzata che si può usare appunto come paradigma e come linea guida: e questo di cui stiamo parlando è un mito molto forte.

Tra l’altro è un mito interessante perché parla del debriefing di una sconfitta, allontanandosi moltissimo dalla narrazione tossica corrente delle buone pratiche, delle good news e delle storie di successo; non è strettamente necessario (un’espressione positiva esattamente corrispondente è quella di leggere i segni dei tempi introdotta dal Concilio) ma certo parecchi eventi globali decisivi capaci di esercitare una riflessione simile al Cile del ’73 sono fatti catastrofici, almeno per una delle parti in gioco: la repressione della primavera di Dubček, per esempio, o la caduta dello Scià o il golpe di Jaruzelski o il crollo del Muro o l’attentato alle Torri Gemelle. È anche un mito forte perché implica la presenza di almeno un grado di separazione fra chi fa l’analisi e il caso che viene analizzato; non stiamo parlando della classica verifica interna che serve a lavare i panni sporchi ma dell’analisi di qualcosa che è significativo pur essendo esterno. Un gruppo dirigente che è in grado di compiere un percorso simile è già un gruppo dirigente di un certo spessore, qualunque sia il livello di cui stiamo parlando: piccole organizzazioni potranno considerare che cambino completamente il campo di gioco dei fatti locali molto più limitati di quelli che ho citato, ma è il metodo che conta.

Negli anni mi è capitato soprattutto di pormi il problema se certi eventi ecclesiali o sociali cittadini potessero avere una applicazione per l’Azione Cattolica diocesana, perché era quella l’organizzazione del cui gruppo dirigente facevo parte; ridotto quell’impegno è chiaro che ultimamente quando capitano dei fatti penso più alle organizzazioni culturali o del privato sociale, pensando ai Fabbricastorie, o a quelle a movente ideale prevalente, pensando a Banca Etica. Un po’ le due cose, ovviamente, si sovrappongono e in fondo quello che vale per questi due continua a valere per le organizzazioni ecclesiali, che quindi vengono terze come campo di applicazione possibile, e poi naturalmente ci sono le organizzazioni politiche e sociali delle quali faccio parte come socio di base o semplice sostenitore o donatore o alle quali sono affezionato, che sono comunque un buon numero e molte delle quali rientrano in più di una delle tre categorie citate.

Tutto questo lungo discorso per dire che trovo il caso dell’Oxfam interessante – e allarmante – per questo mio strano e multiforme mondo di riferimento, così come recentemente mi era sembrato che lo fosse la scissione del PD: là veniva chiamato in causa il rapporto fra base e gruppo dirigente, o fra brand e seguaci/clienti, qui emerge un’altra questione cruciale, che è la gestione della reputazione da una parte e del fallimento dall’altra, e a fianco a questo la gestione della vulnerabilità – prima ancora, la coscienza del proprio essere vulnerabili – per le organizzazioni e le imprese. Non approfondisco perché, come ho detto, ho deciso che dire di più vuol dire pontificare, ma volevo comunque segnalare la pista di riflessione a chi può essere interessato – ed è sopravvissuto fin qua. Del resto, dal video che ho condiviso la settimana scorsa nel primo articolo sull’argomento e da quello che ho scritto a suo tempo sul PD, credo si capisca come la penso!

P.S. Facendo le mie ricerche per questo articolo ho trovato un elenco di undici documentari sul golpe del ’73: lo segnalo per chi vuole approfondire e per chi ama il cinema.

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