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Suggerimenti per giornalisti d’assalto

L’altro giorno discutevo con un’amica di un messaggio che aveva condiviso su Facebook. «È un fake», dicevo. «Molto elaborato, ma un fake».

«Beh, se è un fake», mi diceva, «tanto di cappello: sta in rete tutto il giorno, a parte Facebook lo trovi a commentare su siti di ogni tipo, ma non ce l’ha una vita sua?».

Eh, ma il punto è questo: noi ci immaginiamo gli autori dei fake come degli allegri burloni che a parte questi scherzi hanno altro da fare, o come dei ragazzini che si lasciano trascinare, o come gente che ha una faida personale con una qualche celebrità: questi effettivamente una vita ce l’hanno e i loro scherzi prima o poi finiscono.

Ma il numero di notizie che questi producono è limitato, una minoranza. La maggioranza dei fake sono professionisti. Lo dice anche Andrés Sepúlveda, un esperto di campagne digitali che manipolava le elezioni di mezzo continente latinoamericano e che adesso è in galera in Colombia:

Non c’è azione sulla rete che non abbia un bersaglio. Non vedrai mai un disoccupato creare un meme su un politico. Non esiste. C’è una squadra di lavoro che se ne occupa.

Estraggo la citazione da una intervista su Medium, uno dei pochi articoli decenti sull’argomento che si possono trovare con facilità sulla rete.

Naturalmente Sepúlveda esagera un filo: essendo io l’autore di Roba da giocatori di ruolo (nonché un blogger bravissimo e soprattutto modesto) so benissimo che sulla rete c’è un sacco di gente che produce materiali, anche satirici e magari distribuiti sotto pseudonimo, da Feudalesimo & Libertà a quelli che fanno le copertine di Starmale e simili, che sono tutti persone per bene: goliardi, comici in pectore o gente che vuol semplicemente guadagnarsi la pagnotta, ma non fake in senso stretto. E da quando ho raccontato la sfortunata storia di Shia LaBeouf e della sua installazione so che ci sono attivisti sui gruppi più estremi di 4chan che sono molto meno per bene ma sono comunque sinceri: potendo li candiderei per un campo di rieducazione a raccogliere pomodori in Calabria, ma neanche loro sono fake in senso stretto.

E sotto questa punta della piramide c’è gente ancora meno rispettabile che vende sulla rete servizi discutibili ma non strettamente illegali: follower su Twitter a un tanto al chilo, per esempio, o servizi di pubblicità non dichiarati, grazie a tutta una serie di influencer, YouTuber e Instagrammer.

Ma il rumore e i flussi di comunicazione che tutte queste categorie muovono è limitato: la maggior parte delle tendenze e delle linee comunicative sulla rete si sviluppano, come dice correttamente Sepúlveda, a partire da agende nascoste di professionisti della comunicazione, impegnati a combattere guerre politico-economiche più o meno non dichiarate (e spesso pronti a spostare il peso comunicativo che si sono costruiti da una causa all’altra a seconda delle convenienze). E talvolta l’ufficio di questi professionisti sta nei retrobottega dei partiti, dei servizi segreti più o meno ufficiali o di qualche grande gruppo di pressione.

Se uno ragiona come Laney (o se è malato come me) queste campagne si possono riconoscere abbastanza facilmente, o perlomeno: si può guadagnare quel tanto si esitazione sufficiente a non cliccare subito sul maledetto e accattivante link ed evitare così di spargere veleno con le proprie condivisioni. La maggior parte della gente però non lo fa: un po’ perché non ci pensa, un po’ perché agisce la trappola mentale del «potrebbe essere vero, quindi lo è».

Mi spiego con un esempio: anni fa vidi rilanciata sul sito di Mazzetta, nientemeno, una notizia secondo la quale a un convegno alla Camera la Binetti aveva dichiarato che non si dovevano dare cure palliative ai bambini malati oncologici, «perché così il loro dolore li avvicinerà a Dio». Pur con tutte le distanze che ho dalla Binetti, la notizia mi apparve subito palesemente falsa: ma io sono cattolico e ho quel minimo di strumenti sufficiente a percepire la nota stonata nella notizia. Io (e altri) risalimmo pazientemente la catena di rilanci della notizia fino ad arrivare alla fonte primaria, un tizio piuttosto vicino a un partito politico che ha fatto del laicismo una sua bandiera e che, messo alle strette, dichiarò che non poteva verificare la fonte: si capiva che l’aveva inventata a tavolino. Quando venne chiesto alla lunga teoria di siti che avevano rilanciato la notizia come potessero averlo fatto, risposero che era «verosimile» (Mazzetta si scusò pubblicamente, altri… molto meno, diciamo; l’autore non batté ciglio, perché era in malafede). A parte la strana idea di verità per la quale la verosimiglianza sostituisce la prova, il punto è che per me non era verosimile ma puzzava di falso lontano un miglio: ma io conosco molti cattolici veri e posso verificare la notizia su una base reale, molti altri invece hanno dei cattolici (o dei vegani, o degli antivaccinisti, o delle future mamme) un’idea stereotipata costruita su percezioni già false che servono a rendere verosimili versioni sempre più estreme, come gli strati della cipolla, e contro questo non c’è difesa.

Il punto, però, e qui veniamo ai giornalisti, è che non è che queste cose non si sappiano, fra gli addetti ai lavori: a parte il caso da manuale della campagna mediatica con la quale Casaleggio ha accompagnato il successo del Movimento, a parte che ormai ogni partito ha il suo staff, a parte che questi servizi sono in vendita sulla pubblica piazza, ormai ci sono manuali su come si conducono queste guerre. E, naturalmente, c’è il caso palese del lavoro fatto dai servizi russi nel caso delle ultime elezioni americane, un caso un po’ troppo grosso per essere ignorato. E comunque sono cose che ci sono sempre state: anni fa ci fu un grande sciopero dei portuali di Genova, commentato piuttosto duramente da molta della stampa. Poco dopo venne fuori un dossier che era stato distribuito alle redazioni dai consulenti della controparte, che raccomandava di chiamarli i califfi del porto. Curiosamente tutti gli articoli – ufficialmente non sollecitati – riportavano quell’espressione. Un famoso giornalista ci fece un figurone perché invece aveva usato, nel suo reportage, i sultani del porto: quando si dice la classe, la capacità investigativa, l’originalità.

È proprio il fatto che le cose si sappiano che genera disappunto quando si vede come gli organi di comunicazione mainstream trattano il tema delle fake news, come se le bufale le diffondesse Gennaro ‘o Speziale che si cura con la cicoria e non Marco Rossi laureato alla Bocconi e introdotto nei migliori centri di consulenza sulla reputazione in rete. O come se il problema fosse chi attacca la celebrità prezzolata di turno che ha fatto la marchetta settimanale e non il fatto che c’è chi manovra centinaia di famosetti prezzolati (per non parlare del fatto che il materiale predigerito dai suddetti famosetti poi è subito gioiosamente dato in pasto ai lettori e agli utenti degli organi mainstream). Sapendo quel che si sa sulle fake news il fatto che ci si guardi bene dall’incidere realmente sul fenomeno dimostra come sia, al fondo, un’operazione autoritaria: non danno fastidio le guerre sporche mediatiche, danno fastidio le minoranze troppo vocali.

Quel che sarebbe bello che qualche giornalista d’inchiesta facesse non è che raccontasse queste cose: se può riuscirci il Roberto Sedda di quartiere per un giornalista vero vorrebbe dire abbassarsi alle minuzie. No, quel che sarebbe bello che facesse un giornalista d’assalto, una cosa che l’utente normale non può fare, è raccontarci nomi e cognomi: chi è che gestisce le pagine Facebook che fanno maggiori visualizzazioni? Chi c’è nella redazione? E nella proprietà? Di quali altri siti è proprietario? E chi ha registrato i vari siti di informazione alternativa, o quelli che si occupano di acchiappare clic? Per anni ci è stato fatto vedere l’intreccio di società collegate all’uno o all’altro magnate: e invece queste società e questi personaggi che reticolo hanno? Secondo me ne verrebbero fuori delle belle: magari si scoprirebbe che certe pagine di Facebook che polemizzano fra loro e si mettono reciprocamente alla berlina hanno la stessa redazione, magari. Oppure che un po’ di siti che generano notizie virali sono posseduti dagli stessi che poi scrivono: secondo quanto riporta il sito… essendosi abilmente costruiti la possibilità di lanciare il sasso e nascondere la mano (qui la lettura obbligata sono Demostene e Locke in Il gioco di Ender di Orson Scott Card). Oppure: prendiamo quei pensosi articoli che immediatamente vengono rilanciati da migliaia di utenti e, caso strano, vengono rimasticati e riproposti immediatamente da schiere di epigoni che tutti sentono il bisogno nello stesso giorno di scrivere dello stesso tema… ci sarà mica un dossier che è stato mandato a tutti? Forse al giorno d’oggi basta un Whatsapp: non potrebbe un giornalista farci il favore di fare un bello scoop e mettere a confronto l’input che è stato mandato con gli articoli che ne sono usciti fuori? Potremmo perfino istituire il Premio Sultano per premiare chi è capace di riordinare il materiale ricevuto con più originalità.

E in ogni caso la trasparenza servirebbe a far fare al dibattito sulle fake news un bel passo avanti. Almeno passeremmo da ‘o Speziale alla Milton&Goldman Consulting (o al compare del capo di gabinetto dell’Onorevole).

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