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Malattie che non si confessa volentieri di avere

È cominciato con un vago senso di disagio, poi con l’irritazione.

Diversi anni fa non ce l’ho fatta più, e a un certo punto ho smesso di leggere o guardare le cose che percepivo come propaganda, tutta la comunicazione strumentale, volta solo a generare seguaci o ottenere vantaggi: mi dava un fastidio insopportabile.

In buona parte quella propaganda proveniva da parti politiche che non mi interessavano, quindi non è stato, all’inizio, un grande problema.

Poi ho smesso con i talk show, con i dibattiti pilotati, con le discussioni costruite a tavolino come se fossimo a L’isola dei famosi. Anche questo non è stato un grande problema, non da ultimo perché da quando ci siamo sposati non abbiamo più la TV a casa, quindi buona parte di questa roba non l’avrei vista comunque.

Di seguito ho smesso di leggere Repubblica. E lì ho avuto un primo sintomo di vertigine, perché ho pensato: «è tutto sempre e solo sul teatrino della politica» e subito dopo mi sono reso conto che era una frase da Berlusconi. Mi sono rassicurato pensando che lo stesso concetto si poteva esprimere ricorrendo all’espressione politique politicienne, e che Berlusconi una cosa così ricercata non l’avrebbe mai saputa dire. E ho fatto finta di niente.

E però l’irritazione saliva, saliva, fino ad arrivare alla gola, c’era sempre qualcosa che mi dava fastidio, e la cosa mi preoccupava un po’. È come quando hai un dolorino che non ti piace e tu ti convinci che non è niente, salvo poi tastarti dappertutto quando nessuno ti vede.

Quando anche a sinistra hanno cominciato a parlare per slogan e a misurare le prospettive politiche su quel che è e non su quel che dovrebbe essere e io mi sono sentito circondato, ho capito che avevo un problema.

Però non importava: fuori della politique politicienne  c’è tutto un altro mondo, pensavo.

Per esempio il giornalismo d’inchiesta.

Sarà, ma ho smesso ben presto di guardare Report. Che dico: di dargli credito.

E poi è andata sempre peggio. Ormai non credo più alle good news, alle best practice, alla realtà cambiata dall’interno, a tanti boicottaggi dimostrativi, alla maggior parte delle manifestazioni pubbliche e dei cortei. Ai testimoni. Agli esponenti della società civile. Ai premi Nobel. Alle leadership. Agli autori di libri che ispirano e aprono prospettive. Vado a riunioni politiche e sociali e penso che, con il lavoro che facciamo, come lo facciamo, quelli dell’altra parte possono dormire sonni tranquilli per mille anni. Ci sono compagni che mi dicono: «Beh, è andata bene, dai», e io faccio un ghigno doloroso che loro prendono per assenso. Trovo che tanta cooperazione sociale abbia esaurito la sua spinta propulsiva. E così il biologico, come tante altre cose. Le ONG. E quando vedo promuovere tutta questa gente come se fossero i santini che distribuivano le vecchie zie mi assale l’angoscia, o il desiderio di prendere quelli che sbandierano questa roba riducendola a ciarpame dimostrativo e dargli due schiaffi, come Moretti a quelli che non sanno parlare l’italiano.

Ci sono gente che mi parlano di ideali. Li ascolto e dentro di me scuoto la testa. Bambinate. Fuffa. Sento parlare entusiasticamente di realizzazioni e risultati e mi cadono le braccia: davvero ci credete?

Come ho sentito dire una volta dal mio amico Alessandro Bordigoni, da una parte ci sono i mostri, dall’altra i puffi. Solo che Alessando non considerava che i puffi sono mostri anche loro.

Non vado quasi più a vedere film di impegno sociale. Ho orrore di tutte quelle narrazioni programmaticamente costruite per favorire i buoni sentimenti, la solidarietà sociale, i diritti civili, la fratellanza fra i popoli. I film palestinesi sottotitolati in armeno. Le delicate commedie francesi. I film che dimostrano che le donne, come i sardi, facevano le cose per prime quando ancora nessun uomo ci aveva pensato. Le storie di professori geniali che tirano fuori il meglio dai ragazzi loro affidati, finché questi si alzano dalla sedia a rotelle e vanno a trovare la nonna che ha l’Alzheimer per allontanarsi insieme verso il tramonto.

E il problema è che ho ragione. Non sono depresso e so ancora distinguere lo specifico delle posizioni in campo (come dimostra la mia agenda e le cose per le quali continuo a sbattermi). È proprio che le cose sono davvero così: da una parte i mostri, e va bene (cioè: male), ma dall’altra cortine di fumo, elaborate bugie sociali, egoismi mascherati da bontà, tradimenti ideali, fuffa a mazzi, benpensanti, illusi, ignoranti e un buon numero di pirla.

Una fatica.

Come direbbe Brecht:

Il cieco parla di una via di uscita. Io ci vedo.

Io ci vedo.

Il che porta a posizioni non particolarmente popolari. Temo di avere già deluso abbastanza i miei lettori abituali, così facciamo un esempio per deluderli ancora. Un po’ di tempo fa al baretto dove prendo il caffè uno che conosco mi ha fermato e mi ha fatto tutto un pippone sullo ius soli. Così: ciao, buongiorno, come va, senti volevo dirti che sono indignato che non venga concesso lo ius soli.

Ora. Sgombriamo il campo: lo ius soli è una misura sacrosanta. Ma davvero alle otto del mattino al chioschetto del caffè non hai altro a cui pensare? E se ti dico che la mia impressione è che oggi i governi nazionali non contino una cippa perché tutte le leve del potere, economico, militare, sociale, stanno altrove, e quel che gli rimane è giusto buttarsi su questioni singole di diritti civili – ripeto: sacrosante, ma non è questo il punto – per le quali, data la situazione, non riesco ad appassionarmi, ci rimani davvero male? E se ti avessi detto, povero amico mio, che siamo nel campo delle tecniche di distrazione di massa, come ci saresti rimasto?

Ogni tanto qualcuno che conosco, di quelli che appunto leggono Repubblica, mi chiede cosa penso della tale questione importantissima e molto dibattuta. Che è rumore, penso.

Io ci vedo.

Ed è questa, ovviamente, la malattia.

Non tanto il fatto di avere altre idee. E neppure il fatto di essere in minoranza o non particolarmente politicamente corretti.

No: piuttosto il disincanto. Il rischio dell’inaridirsi della volontà di lotta dietro la scusa dei difetti altrui. Il cinismo che si traveste seducentemente da lucidità. E in fondo alla strada, se non si sta attenti, una qualche forma di apostasia. E a me hanno insegnato che non c’è niente di peggio dell’apostasia.

È successo a gente che conosciamo tutti: uno parte da sinistra, si stufa dell’inconsistenza di certe posizioni, vuol essere concreto, vuol essere diretto, vuol svecchiare l’Italia e si mette con Craxi, il che sarebbe già abbastanza grave, poi addirittura arriva un miliardario milanese che dice pane al pane e vino al vino e racconta barzellette e zac!, prima che te ne sei accorto sei direttore del Foglio, e poi è troppo tardi per rimediare. Certe notti a giurare: «basta, basta, smetto, questa è l’ultima», e la mattina dopo lì, a scrivere un altro editoriale.

Oppure ti può dar fastidio la vacuità di tante celebrazioni della Resistenza, dell’antifascismo, della Costituzione, e in un attimo ti ritrovi a pensare che in fondo c’erano torti e ragioni da tutte e due le parti, che non è proprio vero, eh.

Oppure scuoti la testa inebetito di fronte alle cretinate che sono in grado di scrivere certe esponenti del femminismo militante, e a forza di scuotere la testa diventi strabico e non sei più in grado di vedere con chiarezza l’oppressione tutto attorno a te.

Brrrrr. Il cinismo travestito da lucidità. Meglio niente, signora mia, meglio niente. Il Foglio, brrrrr. Il necessario distacco da pagine dolorose di storia, brrrr. Sono il primo a credere nel genio femminile, brrrr. Molti dei miei migliori amici sono omosessuali. Brrrr. Dopotutto quello ha fatto anche cose buone. Brrrrrr.

Comincia tutto col pensare di vederci più chiaro degli altri. Oppure va così: sei lì, irritato da quello che mischia caffè e ius soli, fai di tutta l’erba un fascio (anche in senso letterale, Fascio) e in un lampo decidi che siccome questo e siccome quello tu rispetto allo ius soli sei contro, il che non va bene perché, come abbiamo detto, è una cosa sacrosanta. E gli immigrati dopotutto non li possiamo certo accogliere tutti, quindi che vogliono?

Brrrrr.

Da quando mi sono accorto di essere malato, ragiono spesso sugli anticorpi: sono disposto a correre molti rischi, ma l’apostasia no.

Mi sono riguardato nei giorni scorsi Fare il morto di Enrico Euli, un libro che nasce, fatte le debite proporzioni, da riflessioni piuttosto simili. Enrico propone l’idea della renitenza, non resistenza e soprattutto non resilienza. Ricorda il personaggio di Bartleby di Melville, che comincia a dire in ogni occasione, mitemente ma fermamente: «Preferirei di no».

Un discreto recupero dello scetticismo classico, al fondo, e una posizione molto rispettabile. C’è molto da dire a favore della renitenza come la presenta Enrico (e Fare il morto è un pamphlet la cui lettura si consiglia vivamente), ma a me non aiuta moltissimo: mi viene di più da dire: «Scrivere buongiorno a tutt*? Preferirei di no»; «Firmiamo una petizione su Change.org? Preferirei di no»; «Fai girare!1!!1! Preferirei di no»; «Mobilitiamoci contro il populismo! Preferirei di no», e cose così. Tutte cose indispensabili per la salute mentale e il rispetto di se stessi; solo che io vorrei qualcosina di più costruens, ecco, che ravvivi la fiamma della fede nell’umanità, la solidarietà e tutto quanto, perché il timore che ho è quello che a furia di dire preferirei di no uno passa direttamente dal filosofo scettico Pirrone al pallone (gonfiato), e questo, converrete, non è bello.

Sono seriamente preoccupato: se mai doveste sorprendermi a dire: «Eh, ai miei tempi anche io credevo a queste cose, poi certo, si cresce, si assume una visione più realistica della realtà…», abbattetemi.

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