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L’ordine delle cose

L’ordine delle cose è un film di Daniele Segre sostenuto anche da Banca Etica: racconta la storia di una trattativa fra Italia e Libia per bloccare i flussi dei migranti, ma è stato scritto prima dei fatti di questi ultimi mesi. L’ho visto ieri all’UCI di Cagliari in proiezione speciale all’interno della rassegna Essai: sfortunatamente eravamo quattro gatti. Il che non esime, comunque, dal farne una recensione, anche considerando che magari potrebbe essere riproposto all’UCI questa settimana stessa o successivamente in altri cinema.

Il film racconta una missione – o meglio: una serie di missioni – in Libia di Corrado Rinaldi, un poliziotto incaricato di assicurarsi la cooperazione delle autorità libiche per bloccare i flussi di migranti verso l’Italia: si tratta di spingere all’azione la guardia costiera, assicurarsi che un centro di identificazione sia meno lager di quello che è, impedire che afflussi di masse di senzatetto mandi in crisi il fragile equilibrio delle città sulla costa, mettere una parvenza di ordine nel caos – una delle tante accezioni di ordine presentate dal film – e rendere il confine una realtà tangibile. L’ennesimo confine sul quale Corrado lavora.

Al contrario di una parte dei suoi collaboratori, che hanno l’aria dei poliziotti appena tolti dalla strada, Corrado è il poliziotto meno sbirro che si possa immaginare: ex campione di scherma, buoni studi, aplomb britannico, ha il profilo dell’alto funzionario del Ministero degli Esteri o della Cooperazione (Interni, in realtà) – l’unica cosa è che, da quel che si capisce, è nel mondo  della diplomazia quello che Wolf è nello spaccio di droga: risolve i problemi.

Ora, il film è costruito per presentare un dilemma morale di Corrado, una sua presa di coscienza di fronte a una situazione, l’ennesima, che deve sbrogliare senza stare troppo a badare al carico di sofferenza che la attraversa. Solo che nella visione io ho incontrato una difficoltà tutta personale: dopo un primo pezzetto nel quale vediamo Corrado nel suo tranquillo sobborgo padovano, con la sua tranquilla famiglia borghese, Corrado va in Libia. E in Libia, nell’attesa di incontrare i vari ex signori della guerra, fa le cose che fanno tutti quelli che sono in missione all’estero: viene accompagnato con gli altri componenti della missione a vedere le bellezze locali, fra le quali una spiaggia. E lì Corrado riempie una bottiglietta di sabbia per portarsela via.

Ora. In Sardegna per una cosa del genere quasi ti arrestano. I nostri aeroporti sono pieni di sabbia presa da spiagge bellissime e sequestrata a turisti odiosi, che vengono additati al pubblico ludibrio e per i quali l’opinione pubblica locale ritiene che le multe salatissime inflitte debbano essere considerate un blando ripiego non potendosi procedere alla pubblica flagellazione.

E quindi quando ho visto Corrado riempire la bottiglietta, o quando si è visto che a casa aveva decine di altre bottigliette simili prese in tutto il mondo, ho deciso che Corrado era, scusate la parola, un pezzo di merda.

Irredimibile.

Ho l’impressione che questo mi abbia un po’ rovinato la tensione drammatica del film e la domanda se Corrado avrebbe, al fondo, scelto di redimere la sua umanità. Per me, semplicemente, il problema non si poneva.

Scherzi a parte, L’ordine delle cose è un film che ha dei difetti non da poco. Prima di tutto è costruito con simbologie simmetriche piuttosto insistite: il tranquillo sobborgo padovano dove il problema è allineare con precisione i cassonetti condominiali e il caos in Libia, Nord del mondo e Sud del mondo, politici alla caccia di successi notiziabili e operativi che si sporcano le mani, il figlio di Corrado che studia all’estero e spende e spande e la ragazza somala che spera di andare in Finlandia a raggiungere il marito, Corrado che ha bisogno di raddrizzare il tovagliolo sulla tavola o di piegare esattamente gli abiti per la valigia e l’ordine mondiale del quale è paladino, l’abilità di Corrado nella scherma e la sua maniera di aggiustare le cose, come fosse un corpo a corpo con un avversario, il collega francese che dà le dimissioni per tornare a fare il poliziotto vero in confronto a Corrado: ce ne sono molte altre e alla fine danno al film un tono didascalico che dal punto di vista narrativo – il già citato dilemma – evidentemente preferirebbe non avere.

Un altro difetto sono i lunghi silenzi di Corrado che riempiono il film, una certa poetica dell’incomunicabilità: lo faceva Antonioni, d’accordo, ma non è strettamente necessario sceglierlo come registro narrativo, tanto più che il resto del film ha sempre cura di dire tutto ma proprio tutto con estrema chiarezza e non lascia mai nulla all’interpretazione: il risultato finale è semplicemente quello di rendere Corrado monodimensionale (d’altra parte Pierobon è bravissimo, e dà spessore: il risultato è molto curioso); considerato che gli altri personaggi sono poco più che comprimari stereotipati – la Ragazza Nobile in Pericolo, l’Amico Cinico e Disilluso, il Politico con la Mano di Ferro nel Guanto di Velluto, gli Infidi Punici – alla fine il fatto che Corrado tenda a venire a mancare rende la tensione drammatica più dichiarata a tavolino che dall’interazione dei personaggi.

E, infine, il film è fin troppo edulcorato nel descrivere la realtà: non solo perché il centro di detenzione in Libia sembra avere gli standard che si vedevano nel documentario Sul fronte del mare, che però è girato in un centro di Bari e l’impressione è che in Libia le cose vadano un po’ peggio, ma perché tutto è sempre un po’ troppo leccatino, in punta di forchetta, anche quando sembrerebbe più probabile che le situazioni possano comportare più sangue, sudore, e parolacce: certo l’algido autocontrollo di Corrado dà la cifra a tutto il film, ma è una cifra che in certe situazioni suona un po’ falsa.

D’altra parte ciascuna di queste critiche ha la sua controparte: per esempio il nostro mondo è davvero simmetricamente squilibrato, e il tranquillo tran tran familiare dei Rinaldi, che in sé non ha nulla di male, fa venire in mente Brecht: quali tempi son questi, quando un dialogo sugli alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio; nel Mediterraneo c’è davvero una strage spaventosa che va avanti sostanzialmente nell’indifferenza del Nord del mondo, e certo lontano dalla tranquilla vita di un sobborgo borghese di provincia, dove si può far finta che tutto questo non esista.

Alla seconda critica corrisponde una descrizione esattissima, invece, di una certa mancanza di immaginazione di certi ambienti del Nord-Est, una certa afasia dei sentimenti o una mutilazione spirituale, che è il volto oscuro del Veneto dei missionari, dei costruttori di pace, della cooperazione sociale. E sulla descrizione della realtà il film è interessante per come mette le mani nella materialità contemporanea (l’uso della tecnologia onnipresente) ma anche per la fortunata descrizione iniziale della community dei raddrizzagarbugli internazionali, le cui mogli ormai si conoscono tutte e approfittano degli incontri dei mariti a Rabat, Tripoli o Kiev per inviarsi reciprocamente i bulbi da trapiantare o la ricetta della torta della nonna: ancora la quotidianità rassicurante mentre là fuori il mondo delira, che è complessivamente il centro narrativo del film – che sia questo e non il dilemma morale di Corrado dice tutto dei meriti e anche dei demeriti del film. Certo, un po’ pesa il fatto che narrativamente Corrado sia il buono a fronte del fatto che tutti i libici sono ripugnanti – con gradazioni dal molto ripugnante al lievemente ripugnante, e sono anche gli unici che in tutto il film vengono chiamati stronzi – d’altra parte inserire a contraltare un libico “buono” voleva dire rischiare la retorica (e però, è l’unica simmetria assente, e la ragazza somala è piuttosto insipida).

Questa cosa della (assenza di) retorica è il motivo per il quale al fondo a me L’ordine delle cose è piaciuto: ne ho apprezzato, soprattutto – oltre agli aspetti filmici, la recitazione, che dopo tutto sono il film – l’asciuttezza e il rigore. Perché era facile finire per fare cose improponibili, e Segre le evita tutte: ieri chiacchierando con il mo compagno e amico di Banca Etica Antonio Messina provavo a immaginare, con terrore, come sarebbe stato L’ordine delle cose girato da qualcun altro, non so, Roland Emmerich (Corrado si introduce nel centro di detenzione nottetempo per procurarsi le prove del traffico di esseri umani, seguono sparatorie infinite finché il super cattivo non minaccia di uccidere la ragazza somala, ma viene eliminato dal sottosegretario che infine si redime dei suoi loschi maneggi politici; finale con i migranti che escono dal centro marciando verso il sole mentre l’adorabile cattivo secondario a capo della guardia costiera e Corrado si ripromettono di incrociare di nuovo le armi alla prossima occasione), o da un qualche regista buonista (Corrado conosce la bellissima ragazza somala; nonostante le differenze culturali nasce fra loro un rapporto che porta Corrado a comprendere quanto vuota e vacua sia stata fino a quel momento la sua vita, dandogli così la forza di prendere decisioni difficili che sinora aveva sempre rimandato; dopo avere consegnato a Repubblica un dossier che svela il castello di corruzione dietro il traffico di esseri umani, Corrado si rifarà una vita come pescatore di ghiozzi a Lampedusa). Orrore: Segre invece evita con cura tutte queste trappole; il risultato non è esente da difetti, ma è un tentativo molto apprezzabile.

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