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Debutti notevoli e altri delitti

Lady Macbeth (Oldroyd, UK 2016)

Come descriverlo?

C’è un elemento interessante del trailer di Lady Macbeth che avete visto qui sopra: è contemporaneamente esatto ed estremamente fuorviante, grazie all’artificio di non far vedere chi esattamente pronuncia le varie frasi riferite alla protagonista, Katherine.

Anche il titolo, in fondo, è fuorviante: non solo perché Oldroyd e la sua sceneggiatrice Alice Birch cambiano completamente il finale del romanzo breve di Leskov da cui è tratto il film, stravolgendone il senso, ma anche perché in fondo il riferimento alla tragedia scespiriana è in questa versione piuttosto labile.

È più preciso, invece, lo slogan del trailer americano, che dice: «Immaginatevi Cime tempestose diretto da Hitchcock» e coglie bene l’atmosfera, soprattutto la brutalità delle vite e dei rapporti della campagna settentrionale inglese e il clima di cupa tragedia imminente (perché, sì, è una tragedia). Anche io durante lo spettacolo ho pensato a Cime  tempestose ma ancora di più a un brano di Conan Doyle che ho citato già un’altra volta:

Era una splendida giornata di primavera, con il cielo azzurro punteggiato di piccole nubi soffici che si spostavano dall’occidente verso oriente. Il sole splendeva luminoso e tuttavia c’era un brivido esilarante nell’aria, che affilava l’energia di chiunque. Per tutta la campagna, giù dalle tondeggianti colline intorno a Aldershot, i piccoli tetti rossi e grigi delle fattorie occhieggiavano in mezzo al verde chiaro del nuovo fogliame.

«Che bellezza, non è vero?», esclamai con tutto l’entusiasmo di un uomo appena emerso dalle nebbie di Baker Street.

Ma Holmes scosse il capo pensosamente.

«Sapete, Watson», disse, «che una delle maledizioni dell’avere una mente come la mia è che devo guardare a ogni cosa facendo riferimento al mio particolare motivo di interesse. Voi guardate a queste case sparse e venite colpito dalla loro bellezza. Io le osservo e il solo pensiero che mi viene in mente è il senso del loro isolamento e dell’impunità con la quale il crimine qui può essere commesso».

«Santo cielo!», esclamai. «Chi potrebbe associare il crimine a queste care vecchie fattorie?».

«Esse mi riempiono sempre di un certo orrore. Io ritengo, Watson, sulla base della mia esperienza, che i più infimi e vili viottoli di Londra non hanno un carico di peccato quale si trova nella piacevole e sorridente campagna».

«Voi mi fate rabbrividire!».

«Ma il motivo è assolutamente ovvio. La pressione della pubblica opinione può ottenere in città ciò che la legge non riesce a fare. Non c’è strada così malfamata che il grido di un bimbo torturato, o il tonfo delle botte di un ubriaco, non susciti compassione e indignazione nel vicinato, e l’intero ingranaggio della giustizia è così prossimo che una parola di biasimo può metterlo in moto, e c’è solo un passo fra il crimine e il banco degli accusati. Ma guardate a queste case isolate, ciascuna nella sua tenuta, piene per la maggior parte di povera gente ignorante che sa ben poco della legge. Pensate agli atti di orrenda crudeltà, alla malvagità nascosta che può proseguire, anno dopo anno, in posti come questi, senza che nessuno ne sappia niente».

Chi ha visto Lady Macbeth non potrà in fondo che concordare con Holmes.

Meccanismi a orologeria e capovolgimenti

In una cosa il trailer, però, è precisissimo, ed è quell’orologio in sottofondo che batte i rintocchi. C’è nella vicenda una ineluttabilità meccanica, a partire dal primo delitto (o dal primo peccato, più esattamente) che attraverso accadimenti “naturali”, magari imprevisti ma mai straordinari, porta progressivamente a un crescere e addensarsi dei crimini e al progressivo perdersi dei personaggi. In questo il trattamento della Birch è magistrale, anche se tanta parte del merito va ovviamente alla concezione originale di Leskov: la trama è scandita da accadimenti isolati, ognuno dei quali, risolto rovinosamente dai protagonisti, rende ancora più rovinoso il verificarsi del successivo, e così via. Ma i personaggi, peraltro, restano sempre assolutamente liberi: non c’è nessuna dannazione predeterminata e la prova è che il finale è assolutamente imprevisto, sebbene ancora una volta assolutamente conseguente.

Questa libertà dipende anche dal fatto che la Birch, immagino a partire dal materiale già fornito da Leskov, cuce abilmente molte suggestioni ed elementi narrativi ben presenti al subconscio dello spettatore: il citato Cime tempestose (e tutte le parti più cupe della narrativa vittoriana), Madame Bovary, naturalmente lo stesso Shakespeare, L’amante di Lady Chatterley, e altri meno individuabili ma comunque molto forti, come un gran numero di persone di colore fra i comprimari, spesso in posizione subordinata. Molti di questi riferimenti, però, sono capovolti e pervertiti: per esempio la Lady Macbeth di Shakespeare è, per ambizione e malizia, l’ispiratrice di delitti orrendi; qui la figura femminile occupa, semmai, il ruolo che nella tragedia sarebbe di Macbeth, ma anche provarsi a seguire questo gioco di rimandi in realtà si rivela insoddisfacente (Sebastian non è Lady Macbeth in pantaloni), e lo stesso varrebbe se confrontassimo Katherine con Emma Bovary o con qualunque altra possibile fonte di ispirazione: Katherine, Sebastian, Alexander, Boris, Anne sono ciascuno se stesso, e non lo specchio di un altro personaggio letterario.

Ambiguità pervasiva

Se il dipanarsi della vicenda e la quantità di suggestioni offerte dalla narrazione sono già due notevoli punti di forza, il vero elemento distintivo è il modo di raccontare scelto da Oldroyd e dalla Birch. La sceneggiatura rinuncia in partenza a qualunque pretesa di onniscienza: non ci sono scene rivelatrici né monologhi nei quali il personaggio disvela se stesso e i suoi moti del cuore – uno dei personaggi chiave, per dire, non può nemmeno parlare, eppure il suo punto di vista avrebbe potuto gettare più di una luce sulla vicenda. Oldroyd serve benissimo questo registro oggettivo, rafforzandolo con una messa in scena molto teatrale (ma non manierata) e col modo con il quale la camera accompagna i personaggi.

Questa presunta oggettività, in realtà, lascia praterie enormi alla ricerca di spiegazioni e significati. Alla conclusione pensavo che questo è un film che potrebbe piacere a quei gruppi di cinefili che nel dibattito amano ricostruire i possibili punti vuoti della trama: quando Anna spazzola i capelli di Katherine o le stringe in modo disumano il corpetto è l’inizio di una lotta per la supremazia fra le due donne? Lo strano comportamento di Alexander in camera da letto deriva da preoccupazioni sull’eredità? Katherine ha amato Teddy come un fratello minore? Boris è un bastonatore, ma con Katherine è notevolmente moderato, come con un bambino cattivo, e ancora più Alexander: c’è davvero oppressione? E quali sono esattamente i rapporti fra Boris e Alexander? Queste e mille domande ammettono risposte assolutamente contrastanti (potrei entrare maggiormente nei dettagli, ma cerco in ogni modo di non rivelare niente di troppo importante sulla trama).

L’ambiguità maggiore, in ogni caso, non è sulle motivazioni dei singoli personaggi, ma su quale tragedia esattamente si stia mettendo in scena. La trama base evoca una polemica classicamente femminista: dona povera data in sposa per convenienza a uomo ricco e più anziano di lei giunge in casa oppressiva. Segue sesso e tragedia.

Solo che la conclusione della storia potrebbe non piacere a molte femministe, e in ogni caso c’è un numero di personaggi di colore troppo alto per essere casuale: Katherine, donna oppressa, ha sotto di sé Anna, donna oppressa (anche come donna, con tanto di scena di abuso nel dormitorio maschile) e per di più serva, per non parlare del ruolo che assumerà nel seguito della storia. E Teddy, che potrebbe ereditare i beni di famiglia, è nero anch’egli. Sebastian sembra un sangue misto (o è zingaro?), e così via. Le dinamiche di potere allineate sull’asse di genere cozzano con le dinamiche di potere allineate sull’asse dei rapporti di classe; sarei curioso di vedere il film proiettato in un contesto di attiviste bianche del movimento femminista riunite insieme a esponenti delle lotta per i diritti civili delle minorane razziali: dubito che sulla base della visione potrebbe nascere una alleanza in vista di obiettivi comuni (e, vivaddio, meno male).

Rimanendo ancora sul senso della storia l’ultima ambiguità riguarda la sessualità: il farsi padroni del proprio corpo e dei propri sentimenti e il ruolo delle passioni. Ci sono molti crimini nella letteratura ottocentesca; di solito quando riguardano una donna il narratore sente il bisogno di ancorarli alla sessualità, come se solo la forza primigenia delle passioni possa sovvertire quell’essere angelicato che è la donna e condurlo al delitto. A prima vista Lady Macbeth si muove sulla stessa linea (credo soprattutto nella linea narrativa originale di Leskov) ma gli interessi economici, le possibili eredità e le opportunità di innalzamento sociale sono sempre molto presenti – anche se solo come strumento per potere liberamente perseguire i dettati dei propri sentimenti: vedasi la scena nella quale Katherine veste Sebastian da possidente. È un distaccarsi notevole dalla tradizione ottocentesca: a mente mi viene in mente soltanto Becky Sharp di Vanity Fair e non è neanche detto che lei sia davvero una criminale. D’altra parte dire che le passioni e la sessualità non c’entrino nulla con Lady Macbeth è evidentemente impossibile da sostenere, e questa è un altro di quei non detti che il film consegna allo spettatore perché li risolva per conto suo.

Metterebbe tutti d’accordo forse una linea interpretativa che veda il film come parabola di una lotta spietata per la sopravvivenza, nella quale Katherine (ho la pelle dura, dice) fa quel che deve quando deve. In realtà ci sono altrettante obiezioni in questo caso di quante ce ne siano in ogni possibile altra interpretazione, e rimane questo il punto di forza del film.

Quasi debutti notevoli

Florence Pugh, che fa Katherine, non è proprio al suo esordio: aveva già fatto The falling. Comunque è bravissima, bravissima, bravissima, anche se ho trovato l’inglese del film molto faticoso (l’ho visto in lingua originale) e quindi non sono del tutto in grado di giudicare della recitazione verbale; ad ogni modo la sua Katherine ha una forza straordinaria. Anche Oldroyd, sebbene questo sia il primo lungometraggio, non è propriamente un debuttante: a parte che ha fatto un paio di cortometraggi, è un regista teatrale affermato. In ogni caso Lady Macbeth di fatto lancia entrambi di fronte al grande pubblico e questo è un ulteriore elemento di interesse del film.

Da profano, però, non sono del tutto sicuro del lavoro di Oldroyd. Che il film trasudi personalità è indubbio, così come il fatto che dimostri di sapere benissimo cosa raccontare e soprattutto come. A fronte di questo indubbio talento, però, alcune scelte possono lasciare perplessi, come per esempio l’onnipresenza di quella specie di ottomana sulla quale vediamo spesso assisa Katherine: che sia un elemento scelto con intenzione, ben inserito nella visione di Oldroyd, è ovvio; ma denota anche una insistita teatralità, un gusto per la “messa in scena” che non è propriamente cinematografico e che, in fondo, fa pensare che il regista sia ancora un po’ acerbo, ancora non propriamente padrone del mezzo cinematografico… o che trasudi talmente tanto talento da permettersi di sprecarlo: io sono un profano e non sono in grado di distinguere. Immagino che il prossimo film ci toglierà ogni dubbio.

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