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Bravi ragazzi in Afghanistan

Ho messo da poco le mani su una serie di libri in inglese dedicati a spie, operazioni speciali, commando e roba del genere.

Ok, siamo evidentemente nel campo delle recensioni dei libri strani di Rufus (come questo o questo). Nel caso specifico la maggior parte dei libri sono insopportabili e li ho abbandonati dopo poche pagine, tranne One hundred victories di Linda Robinson (il titolo fa riferimento a una famosa citazione di Sun Tzu, che è riportata in epigrafe: «Vincere cento volte in cento battaglie non è il culmine dell’abilità. Sottomettere il nemico senza combattere è il culmine dell’abilità»).

Devo dire che, anche fatta la tara al fatto che mi diletto di libri di storia, che  io e la Robinson potessimo intenderci non era così scontato. Intanto lei è una ricercatrice per la RAND Corporation, il think thank non ufficiale del Ministero della Difesa americano. Il libro è tutto dedicato all’uso delle forze speciali statunitensi in Afghanistan in un momento cruciale, diciamo dal 2010, quando gli americani sostanzialmente stanno perdendo la guerra, al 2013, quando Obama richiama le ultime truppe, e io non ho di base una grandissima simpatia per i vari Berretti Verdi e simili. E la prospettiva del racconto è tutta americana e controinsurrezionale: e per quanto uno possa detestare anche i talebani leggere un libro che discute i modi migliori per affermare l’imperialismo a stelle e strisce è, come dire?, un po’ spiazzante.

Anzi, diciamolo tutto: se non stai attento ti stara il fascistometro, ecco (mai come certi altri libri del mucchio, comunque).

Quando la suocera è un generale

In realtà ho trovato la lettura molto interessante probabilmente perché, rispetto agli altri libri del mucchio, questo è anomalo.

Intanto, pur non brillando letterariamente, non è scritto male, e già questo non è usuale. E poi non si capisce bene cos’è: la Robinson è stata sul campo più e più volte e ha intervistato i protagonisti, ma non è un libro giornalistico in senso puro: non c’è sensazionalismo, non c’è pathos, non c’è cura della narrazione, si vede che ci sono state moltissime interviste ma raramente si dà voce diretta ai protagonisti. È un libro che palesemente è stato scritto in collaborazione o all’interno di un progetto delle forze armate americane, ma non è un testo anima ‘e core di propaganda – sebbene abbia un punto di vista molto marcato. Non è neanche un libro di storia, sebbene sia ricco di note e bibliografia: gli manca l’esposizione del contesto, l’approfondimento, l’oggettività dell’analisi che si fa a distanza.

E quindi che è? Fondamentalmente è un memorandum che un tecnico del settore – nel senso di un ricercatore specializzato sull’argomento – scrive apparentemente per il grande pubblico ma in realtà per i colleghi – altri ricercatori del settore, politici, militari – per mettere i puntini sulle “i”, fornire un’interpretazione relativamente a caldo degli eventi trascorsi, sostenere una serie di misure politiche e organizzative e tentare di impedire che ne vengano adottate altre.

Un libro che insomma finge di parlare a nuora ma si rivolge alla suocera: siamo nel campo dell’utilizzo delle forze speciali e quindi la nuora sono i lettori di instant book storicheggianti e gli appassionati di cose militari e la suocera un pubblico ristretto e selezionato di decisori. È un libro di propaganda, ma non di propaganda all’esterno: di propaganda interna ai circoli militari, e come tale offre uno scorcio visuale piuttosto interessante.

Il futuro delle forze speciali

Qual è la tesi di cui si vuol fare portavoce la Robinson? Beh, in due parole sembrerebbe: basta fare i cowboy.

Sta a vedere che mo’ è pure un libro democratico.

Però questa è la tesi che emerge man mano dalla ricostruzione storica. Il primo capitolo, in realtà, fissa il prologo della vicenda molto all’indietro, più o meno nel 2007: in un momento nel quale alcuni degli alti ufficiali che poi torneranno come protagonisti del libro sono comandanti sul campo e ottengono vittorie spettacolari contro i talebani con l’impiego delle forze speciali. E però si convincono che potranno vincere mille di queste vittorie ma la situazione – se procede così – è senza uscita: gli Stati Uniti non possono combattere all’infinito e quindi, prima o poi, perderanno, se non in senso militare in senso strategico (Vietnam, anyone?).

Salto in avanti nel 2010: siamo nella situazione descritta anche recentemente in War Machine con Brad Pitt. Gli Stati Uniti e le altre forze della coalizione sono sempre più impelagati, i talebani dilagano ovunque e la prospettiva di una vittoria militare si allontana mentre l’amministrazione Obama sembra intenzionata a staccare la spina. È allora che i capi delle forze speciali USA decidono di rispolverare una vecchia arma del loro arsenale , cioè la costituzione di gruppi di autodifesa (qui battezzati come polizia locale afgana) destinati, villaggio dopo villaggio, a contendere il controllo del territorio ai talebani, sollevare le truppe regolari USA da compiti gravosi e, soprattutto, vincere i cuori della popolazione, garantendo sicurezza e dando spazio sufficiente perché le valanghe di soldi in cooperazione internazionale che gli USA sono disposti a spendere arrivino sui territori e abbiano effetto.

La tesi è tutta qui: abbiamo vinto perché alcuni militari di alto grado hanno avuto questa illuminazione, il sistema ha funzionato come lo fecero funzionare gli inglesi in Malesia negli anni ’50 e decine di altre forze di sicurezza in altre parti del mondo successivamente (e noi americani stessi recentemente nelle Filippine), e ci hanno così tirato fuori dai guai. Se continuavamo a sparacchiare qui e là senza senso come volevate fare voi, adesso avevamo ancora un piede nella fossa, anzi due.

Il libro segue quindi non tutte le operazioni militari USA del periodo, né quelle più importanti mediaticamente (dell’uccisione di Bin Laden, per esempio, si parla en passant): piuttosto ogni capitolo presenta una fase dello sviluppo del processo di costituzione di queste forze di polizia locale in una determinata provincia afgana, dai primi esperimenti al consolidamento della procedura e così via, scegliendo man mano la provincia più significativa per spiegare l’evoluzione del percorso e tornando, se necessario, a esaminare la stessa provincia a distanza di anni. Protagonisti, in questo senso, sono i comandanti e i componenti dei plotoni di forze speciali incaricati di volta in volta della missione, che la Ronbinson ha intervistato direttamente.

Al termine si traccia un bilancio: e la tesi è che il futuro delle operazioni speciali – nonostante le aspettative delle reclute – non risiede più in una specie di Call of duty dal vivo ma in un compito di insegnamento: Berretti Verdi che siano a un tempo maestri, animatori locali e mediatori sociali. Però col mitragliatore pesante. Un incrocio fra Danilo Dolci e Rambo.

Ho le vertigini.

Scusate, alla fine mi si è starato davvero il fascistometro. Aspettate un attimo che mi riprendo.

Cattiva coscienza e autocritica

La tesi del libro è che questa strategia ha funzionato, permettendo che il disimpegno delle forze americane voluto dall’amministrazione Obama lasciasse dietro di sé un governo afgano stabile e sufficientemente padrone del territorio da poter considerare grosso modo concluso il processo di transizione democratica (e facendo in modo, naturalmente, che gli USA potessero sostenere in modo credibile che l’operazione avviata nel 2001 aveva finalmente portato dei risultati duraturi). È di questi giorni la notizia del lancio in Afghanistan della madre di tutte le bombe, ci sono ancora perdite fra le truppe NATO (ancora più importante: ci sono ancora truppe americane e NATO nel paese) e le notizie non sono in generale rassicuranti. Il libro, che pure non è elogiativo di Obama, potrebbe sembrare in questo senso una foglia di fico a una quasi-sconfitta (una vittoria sul campo e al più un pareggio politico) , che glorifica i risultati ottenuti e dà del ritiro americano un senso di “missione compiuta” che in realtà non c’è stato. Oppure potrebbe essere che l’affrettato ritiro finale del grosso delle truppe – così fortemente voluto da Obama e dagli alti comandi – abbia tagliato le gambe al supporto diretto sul territorio alla costruzione di forze di sicurezza e militari afgane efficienti, lasciando sul campo solo i cowboy delle operazioni scintillanti di incursione, uccisione o cattura, destinati alla fin fine a essere inconcludenti, e che la crisi odierna dipenda da quello: i capitoli finali del libro si possono prestare ad entrambe le spiegazioni.

Un altro posto dove c’è probabilmente cattiva coscienza è nella sistematica negazione – o attribuzione alle calunnie talebane – di torture e altre azioni criminali da parte delle truppe americane e degli afgani che collaborano con loro. Una simile sottovalutazione è costante anche per tutti i fenomeni corruttivi – così diffusi nella società afgana – quando i protagonisti sono figure politicamente sensibili o amiche degli Stati Uniti: anche il modo clientelare di governo della famiglia Karzai ottiene ben più del beneficio del dubbio.

Nelle stesso tempo il libro abbonda curiosamente di note di autocritica sull’arroganza dell’impostazione culturale degli americani all’estero, discorsi ad usum delphini per spiegare alla suoc… ai decisori perché poi gli americani risultano antipatici:

La maggior parte del mondo opera sulla base di una cultura della relazione invece che della cultura della transazione comune negli Stati Uniti,

questo per spiegare perché è meglio che gli abitanti del villaggio si fidino di te, piuttosto che comprarli con regali. Ancora più chiaro:

Sebbene gli Afgani apprezzassero l’aiuto degli americani e della coalizione, volevano condurre la loro propria guerra. E non volevano commando stranieri che facessero irruzione nelle case degli afgani nel mezzo della notte; gli americani non avevano mai compreso quanto profondo fosse questo affronto culturale per gli afgani.

oppure

L’unilateralismo troppo spesso verificatosi viola un’altra regola cardinale che le forze speciali hanno da lungo tempo interiorizzato: non è il loro paese. Il riconoscimento della sovranità comporta appropriate regole di ingaggio e un basilare senso di umiltà.

D’altra parte queste sono parole che non sempre raggiungono il cervello, sembrerebbe. La Robinson stessa a un certo punto riferisce senza battere ciglio che quando, dopo l’ennesima tensione con Karzai, vengono impedite le operazioni notturne unilaterali, cioè senza la presenza di truppe nazionali afgane a supporto, le forze speciali, come le altre branche dell’esercito americano, reagiscono mettendo su delle unità afgane “amiche” da portarsi dietro per poter fare come gli pare.

L’ultimo aspetto interessante che emerge dal libro è la quantità di soldi, davvero impressionante, che gli USA hanno speso in Afghanistan. Non si tratta tanto dei costi legati al puro sforzo bellico (anche se tenere in campo una sola divisione costa uno sproposito al giorno, e in Afghanistan ce n’erano parecchie) ma soprattutto delle cifre enormi spese in cooperazione internazionale – e questo si capisce – e delle cifre altrettanto enormi spese in tutto il resto. Si scopre incidentalmente, per esempio, che ogni comandante di grandi unità sul terreno dispone di cifre ingenti, che utilizza per finalità diciamo politiche senza troppa supervisione: c’è chi ci finanzia le scuole nella zona di sua competenza e chi avvia il reclutamento di miliziani afgani a proprio uso, per dire. Il lettore italiano, malfidato, si chiede subito se simili montagne di denaro abbiano dato adito a fenomeni corruttivi non negli afgani – che quello è assodato – quanto fra gli stessi militari USA. Su questo il libro tace, e tuttavia una spia interessante c’è nella vicenda del maggiore Jim Gant, responsabile delle operazioni speciali nella provincia di Kunar.

Gant era stato uno dei primi operatori speciali in Kunar. Un articolo a suo nome, dal titolo “Una tribù alla volta”, che ripercorreva la sua esperienza di coinvolgimento delle realtà tribali, gli aveva meritato un largo seguito e un certo grado di fama nell’ambiente militare. Gli era stato permesso di ritornare a Kunar per una missione di due anni in una sistemazione in qualche maniera non ortodossa. Normalmente un maggiore delle forze speciali sarebbe un comandante di compagnia che supervisiona le squadre che compiono le missioni tattiche. Ma Gant aveva sviluppato radici profonde in Kunar. La sua relazione con “Toro Seduto”, il nomignolo da lui affibbiato al capo tribale in Mangwal era, per sua stessa ammissione, come quello di padre e figlio.

Gant si atteggiava al LAwrence d’Arabia dell’Afghanistan, ma si rivelò essere qualcosa di più simile al colonnello Kurtz di Apocalypse Now.

Segue il racconto di una serie di atteggiamenti romanzeschi ma improduttivi, se non pericolosi, finché il comando interviene e salta fuori che

Gant aveva messo in scena una qualche forma di fantasia alimentata da sesso, droga e alcool divenendo, come disse un ufficiale, «una leggenda di sua invenzione».

La cosa interessante è, a parte il riferimento all’uso di droga, che in altri momenti del libro si intuisce essere diffuso fra le truppe, il fatto che parte integrante di questo delirio fosse la relazione privilegiata con una ex giornalista del Washington Post che viveva con lui illegalmente nella base, nel ruolo duplice di amante e di narratrice delle sue imprese. È uno spaccato interessante (il passaggio più letterario del libro) e in qualche modo mi ha fatto ricordare che il generale Petraeus, che è uno degli eroi del libro in quanto sostenitore del ruolo delle forze speciali, acclamato al ritorno in patria, ha conosciuto giorni ingloriosi per una vicenda che anch’essa contemplava una giornalista come amante e la gestione imprudente di segreti d’ufficio. Non c’è nel libro la Blackwater, insomma, né lo sfruttamento imperialistico delle risorse afgane (anche perché probabilmente c’è rimasto poco da razziare), ma l’indizio di un cocktail ubriacante di potere, denaro, ruolo dei media e politica.

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