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I Padri non avrebbero avuto paura

Dopo lo spettacolo di sabato avevo un pensiero che non riuscivo benissimo a focalizzare, così sono andato a rivedermi Leggere la Bibbia con i Padri, di Maria Campatelli, un testo che quando l’ho letto la prima volta mi ha molto respinto perché criticava il metodo storico-critico di lettura della Bibbia nel quale ero stato educato (ricordo che lo trovai un testo molto conservatore, sebbene in maniera rinfrescante, come il limone amaro). Col tempo però ho apprezzato meglio diverse cose del libro di Maria – del resto la visione di Marko Rupnik e di altri legati al gruppo della Lipa sono stati importanti per la mia formazione – e trovo che sia una posizione rilevante rispetto alla domanda che mi facevo se serva una pastorale basata su spettacoli come I cinque linguaggi dell’amore.

Negli anni ’90 una parte dei Pastori e dei catechisti ha creduto di poter delegare la formazione cristiana – identificata con adesione a valori, non come sequela della persona di Cristo – agli atei devoti, ai politici conservatori e perfino a Mediaset, più consonante rispetto al supposto progressismo di… Famiglia Cristiana. Un abbraccio mortale, perché a un certo punto ci si è accorti, sorpresa sorpresa, che la gente obbediva più a Libero che ad Avvenire. Se ai bei vecchi tempi della DC il laicato prima era cristiano e poi politico, il nuovo laicato prima ha un posizionamento politico e poi cerca nella Chiesa ciò che gli vada bene, con dei meccanismi criptoscismatici non da poco. Nel vuoto – didattico, catechistico, pastorale e organizzativo – che si è creato si continua purtroppo sulla stessa strada, cercando di colmare il vuoto importando a secchiate, a ondate, materiali i più disparati e spesso eminentemente anticristiani anche se travisati da valori fondamentali e non negoziabili.

Dicevo ieri che sono un cattolico piuttosto conservatore. Io, francamente, ripartirei invece dal mettere al centro Gesù Cristo, e la sua Parola. La discussione che vi riporto riguarda apparentemente i metodi esegetici, ma in realtà può essere applicata anche oltre. I grassetti sono miei.

Negli ultimi secoli sono stati messi a punto tanti metodi per lo studio dei testi antichi. Tutte le problematiche relative all’interpretazione sono divenute più complesse e più fini. Ma fino a che punto questi metodi e queste più acute sensibilità sono appropriati per lo studio della Bibbia e aiutano ad entrare nel suo mondo?

I metodi, infatti, se hanno offerto dati preziosi per la comprensione dei testi della Scrittura, sono nati da presupposti spesso in contraddizione aperta con l’universo della fede. La Chiesa per molto tempo è stata reticente nei loro confronti. Anzi, all’inizio la sua reazione è stata di opposizione, nel tentativo di difendersi da ciò che le scienze naturali e quelle storiche sgretolavano di quello che essa comprendeva come la verità del testo sacro. Poi la Chiesa, vedendo che non avrebbe più avuto spazio nella cultura che si faceva largo in Europa, se non accettando questa cultura nelle sue premesse, nelle sue forme particolari, nei suoi percorsi epistemologici, ha cercato di mostrare che la Bibbia non contraddiceva, ma era in accordo, con quella che era la verità scientifica e storica del tempo. Ben presto, però, si è accorta che entrambe tali strade erano senza uscita. La prima, perché non si può contraddire questo tipo di evidenza. Sulla base del progresso scientifico, non possiamo più, ad esempio, continuare ad affermare che il sole gira intorno alla terra, come fa Gs 10,12. 11.  La seconda perché, in questo affanno apologetico, si può rischiare di riconoscere come verità inconfutabili ipotesi scientifiche che sarà lo stesso sviluppo ulteriore della scienza a mettere in discussione. Ma, ad un livello più profondo, perché entrambe queste reazioni non colgono la natura profonda della Bibbia e del suo insegnamento. Già Agostino, infatti, diceva:

“Nel vangelo non si legge che il Signore abbia detto: vi manderò un Paraclito perché vi insegni il corso del sole e della luna; in effetti, Egli voleva fare dei cristiani, non dei matematici”.

La verità della Bibbia parla ad un livello dell’esistenza umana che non contraddice le verità degli altri suoi livelli, con le quali essa non è più messa in concorrenza:

“Lo Spirito di Dio – è ancora Agostino a parlare –, che parlava per mezzo di essi [gli scrittori sacri], non ha voluto insegnare agli uomini queste cose che nulla importano per la salvezza dell’anima”.

Anche la preoccupazione moderna per la storicità della Scrittura è frutto della necessità apologetica. La Riforma aveva messo in crisi la tradizione e volle tornare indietro alla Bibbia, cercandone il “significato originale”. Il rinascimento e l’illuminismo avevano considerato con scetticismo le pretese cristiane, e tutto questo esigeva una risposta. La ricerca storica era il modo per “provare” che Gesù era esistito veramente, che non era un mito, e che la Bibbia era vera. Così l’attenzione al significato “letterale”, inteso come riferimento del testo a eventi storici, divenne la questione centrale, piuttosto che il fatto che la Bibbia indica oltre se stessa, come invece era la questione all’epoca patristica.

Così, solo piano piano, quasi timidamente, la Chiesa ha dato diritto di cittadinanza al suo interno ai metodi per lo studio critico del testo biblico, a partire dall’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893), poi alla Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943), fino alla Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II (1965). Con ciò, anche in campo cattolico, gli studi biblici hanno avuto un grande sviluppo per la possibilità di un pluralismo di metodi e di approcci. Tanti falsi problemi sono caduti con la conoscenza dei generi letterari, con la ricostruzione del testo autentico, della sua genesi…, ma ne sono nati anche di nuovi. I metodi si sono fatti sempre più precisi e diversificati. Oltre al filone storico critico, negli ultimi 50 anni si sono ispirati alla semiotica, all’ermeneutica e ad altre scienze umane. Talvolta questi metodi convivono, altre volte si criticano, spesso si ignorano… Così, quello che alcuni hanno riconosciuto come una ricchezza, ad altri è sembrata confusione, sterilità, insignificanza per la vita dei cristiani, soprattutto quando l’esegesi considera se stessa solo un atto di critica dei testi tanto più professionale quanto più chi la pratica mette tra parentesi il proprio essere credente. L’applicazione di tali approcci, prevalentemente analitici, ha scomposto i libri della Scrittura in ciò che venivano individuate come le sue unità originarie, sciogliendo i legami che univano la Bibbia e facendo di essa una serie di elementi isolati. La critica alla teologia medievale di aver ridotto il testo biblico ad un arsenale da cui attingere argomenti, cioè di averlo ridotto allo stato di oggetto, si è rovesciata così a sua volta sull’esegesi moderna, che ha fatto anch’essa del testo un oggetto, questa volta per esercitare la propria ragione scientifica. Abbiamo imparato tanto sui tempi e i luoghi in cui i diversi scritti biblici sono stati composti, ma ciò spesso non è servito a farci cogliere la santità della Scrittura. I fondamentalisti hanno trovato in tutto questo i loro argomenti contro l’esegesi scientifica e, anche in chi ha posizioni più moderate, nascono delle perplessità nei suoi confronti. Da un punto di vista positivo, abbiamo capito che il piccone degli archeologi, le grammatiche delle lingue antiche, la psicologia delle letterature mediorientali non bastano per entrare nel mondo della Bibbia, che le scienze non esauriscono tutti i mezzi di accesso alla Scrittura.

Anche l’appello ad un ritorno all’esegesi dei Padri, se mal compreso, rischia di non farci vedere dove è la vera sfida. I Padri non avrebbero avuto paura a leggere la Bibbia alla luce delle teorie scientifiche più all’avanguardia del loro tempo. Per loro ciò che era importante, come vedremo, era la natura sacramentale, iconica, del creato e del testo biblico e l’ingresso del lettore credente nel suo mondo.

[…]

Il linguaggio della Scrittura è per loro molto più che metafora, molto più che analogia: è un mezzo sacramentale che permette a Dio di esprimersi in un racconto comunicato attraverso un linguaggio umano. Proprio per questo la Bibbia evoca una presenza, contiene un senso divino, più profondo di quello solo storico e umano, eppure dentro i limiti tracciati dal linguaggio umano. Ma la presenza del mistero in esso non può essere ridotta alle sue parole. Discernere il suo significato implica uno sguardo contemplativo, cogliendo la segreta realtà a cui allude, evocando la presenza efficace del mistero trascendente. Noi possiamo decidere di rimanere alla superficie delle cose – anche se questa superficie si dilata a dismisura e conosciamo al microscopio tutti i suoi recessi –, oppure di vedere in essa una realtà che rimanda oltre se stessa, qualcosa che manifesta in se stessa ciò che non è, che è più di essa e che tuttavia si rivela per mezzo suo. Questo, se è vero particolarmente per la Bibbia, vale per tutta la realtà, dove chi ha occhi capaci di cogliere l’agire di Dio nella storia vede l’“intersezione” tra due mondi, uno fenomenico, immanente, e un altro trascendente. In questa prospettiva, il mondo fenomenico diventa una via di accesso all’altro. Bisogna allora cercare un nuovo ordine di rapporti e di nessi vitali tra i due mondi, tramite il quale la realtà viene colta dal di dentro, attraverso delle piccole fenditure, e il fenomeno diventa un accesso al mondo spirituale. Solo se si guarda la Scrittura da questo punto di vista, si oltrepassa il piano del fenomeno del libro per accedere a quello del mistero vivo, si passa cioè dalla lettura della Bibbia all’esperienza della Parola di Dio. Non si considerano più Abramo, Isacco, Noè, Giuditta, Ester, Noemi, Giobbe, la venuta di Cristo solo da un punto di vista oggettivo e statico. Tutto è dentro una dinamica, una dinamica che è precedente al testo, che è dentro il testo, ma che non si ferma al testo, buca il libro e passa nella vita, nella vita della Chiesa – che custodisce il Libro – e nella vita di ciascun credente, illuminando anche il futuro, se è vero che gran parte di quello che dice la Scrittura ha a che fare con le promesse e che la sua lettura ha come risultato la speranza (cf Rm 15,4). È un passaggio, una pasqua, che trasforma tutto in una tappa della pasqua universale di Cristo e ce ne rende partecipi.

Solo così si comprende come l’agire di Dio ha nella Parola il suo fondamento, una Parola che ha il suo perno nella Scrittura che tuttavia può diventare dinamismo di vita, grazie allo Spirito, solo quando la comunità riesce a farne non un pezzo da museo, un documento d’archivio, ma una realtà sempre attuale, capace di interpellare gli uomini nel vivo della loro vicenda esistenziale.

Una cultura che, grazie alla fede, sa vedere il mondo fenomenico penetrato da un’altra realtà trascendente e spirituale, sarà in grado anche di leggere il rimando presente nella Scrittura in questi termini.

EDIT 1/4/2017: aggiungo qualcosa perché forse il testo di Maria, pur molto pregnante, non è sufficientemente chiaro nel suo collegamento con quello che volevo dire. Io – nei mieli limiti culturali,  ovviamente – non ho problemi a entrare con la mia identità religiosa nei dibattiti più strani e diversi dei vari popoli che frequento, perché so distinguere i piani fra quelle argomentazioni e la Verità che rivelano la Scrittura e l’insegnamento della Chiesa e perché non ho niente da difendere se non la gloria di Dio e l’uomo vivente. Se invece la pastorale perde quella libertà e capovolge le gerarchie, prima i metodi, poi la santità della Parola, prima gli stereotipi sui ruoli familiari e poi il bene dei coniugi, prima l’adesione a valori in fondo umani e poi la sequela di Gesù, allora non va da nessuna parte.

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