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Cara ti amo… ma sono parecchio confuso

Sabato sono stato con Maria Bonaria e qualche amico a vedere I cinque linguaggi dell’amore, uno spettacolo di Pierluigi Bartolomei.

Siamo andati allo spettacolo piuttosto allo sbaraglio: l’invito ci è giunto tramite l’Ufficio della Pastorale Familiare, la sede era la grande aula conferenze del Seminario diocesano e, secondo quanto ci ha detto un amico sacerdote di passaggio, fra il pubblico c’erano molti aderenti all’Opus Dei, quindi il contesto era piuttosto chiaro. Però l’esatto tema dello spettacolo tutto sommato sfuggiva: Maria Bonaria, per esempio, si è chiesta se si trattasse di un adattamento de I quattro amori di C.S. Lewis.

Gary Chapman – da Wikipedia

In realtà, come spiega Bartolomei fin dalle prime battute, I cinque linguaggi dell’amore è una lezione-spettacolo – un monologo di cabaret – che intende divulgare i contenuti del libro omonimo sulla comunicazione fra coniugi di Gary Chapman (ElleDiCi 2001, € 10), che durante lo spettacolo viene presentato come psicologo e che in realtà è un pastore battista bianco del Sud con una formazione (molto rispettabile) in antropologia e formazione degli adulti conseguita presso università religioseI cinque linguaggi dell’amore è un suo libro di estremo successo, con milioni di copie vendute e traduzioni in cinquanta paesi; negli anni il libro è diventato una vera e propria franchise con variazioni infinite: adattamenti per giovani, per militari, per coppie anziane e addirittura per singles, eccetera.

Parentesi: è sempre curioso come un certo tipo di movimenti cattolici non usi mai nessuna cautela nel trasferire nel proprio discorso religioso materiali provenienti dal mondo della Riforma americana, considerati accettabili solo perché di impostazione conservatrice avvolta in un linguaggio cristiano. In questo caso non siamo agli estremi della polemica contro Halloween, ma ai bei vecchi tempi nei quali ero un animatore parrocchiale un libro di auto-aiuto americano come quello di Chapman sarebbe stato guardato con estremo sospetto, tanto più se proveniente da una fonte per la quale la dimensione ecclesiale comunitaria, i Sacramenti e la presenza di un sacerdozio gerarchico sono del tutto fuori dell’orizzonte.

In realtà il discorso è più complesso. In primo luogo da un punto di vista terapeutico sostanzialmente Chapman, diciamo, male non fa e anzi probabilmente stimola le coppie, anche quelle con una impostazione laica, alla ricerca di una migliore intesa affettiva reciproca; del resto leggo da tutte le parti che Chapman è un ottimo consulente familiare e conferenziere con un suo pensiero non facilmente banalizzabile e certamente non stereotipato. E in secondo luogo…

… aspettate, andiamo per gradi.

Lo spettacolo inizia con una parte che non c’entra nulla con Chapman. Con alle spalle una grande diapositiva di un cervello umano, Bartolomei racconta delle differenze fisiologiche fra uomini e donne. Testosterone e ossitocina, grandezza del cervello e dei suoi vari componenti e perciò, insomma, i motivi ormonali e anatomici per i quali donne e uomini si comportano diversamente: potete farvi un’idea da questo articolo di Aleteia, che contiene molte affermazioni simili a quelle fatte da Bartoleomei e…

Parentesi: la fonte di Aleteia è un sito universitario cattolico spagnolo che usa come fonte primaria gli studi di una certa Louann Brizendine. Sono pronto a scommettere che nelle varie traduzioni nessuno si è preoccupato di revisionare le fonti, ma essendo l’amichevole zio Rufus di quartiere che tutti amate io invece l’ho fatto e ho scoperto che la Brizendine è l’autrice di un libro del 2006 intitolato Il cervello delle donne (BUR 2011, € 10) e di un altro più recente, Il cervello dei maschi (Rizzoli 2010, € 18), ricchi di argomentazioni del genere «Gli uomini sono taciturni, le donne ciarliere» o: «Le donne sono naturalmente predisposte a reprimere l’ira, gli uomini in caso di stress andranno a cercare la prima femmina disponibile». Il problema è che già il primo libro della Brizendine è stato assassinato da Nature (che ha coniato al proposito il termine psiconeuroindottrinologia):

E tuttavia, nonostante le ampie credenziali accademiche dell’autrice, “Il cervello delle donne” fallisce in maniera deludente nel soddisfare perfino gli standard più basilari di correttezza ed equilibrio scientifico. Il libro è infestato di errori scientifici ed è fuorviante in riferimento ai processi dello sviluppo del cervello, il sistema neuroendocrino e la natura delle differenze fra i sessi in generale. A livello della “immagine d’assieme”, tre errori si stagliano con nitidezza. Primo, le differenze fra i sessi fra gli umani sono enfatizzati fino al punto di creare specie differenti e tuttavia virtualmente tutte le differenze nella struttura del cervello e la maggior parte delle differenze in comportamento sono caratterizzate da piccoli scarti medi e da una grande sovrapposizione fra maschi e femmine a livello individuale. In secondo luogo i dati sulle differenze strutturali e funzionali nel cervello sono routinariamente descritti in termini tali da far presumere che debbano predire tutte le differenze nel comportamento fra i sessi. Infine, l’enfasi sui livelli ormonali fino alla virtuale esclusione dei sistemi che li interpretano (e le reciproche interazioni regolatorie fra recettori e sistemi di secrezione) è specialmente deplorevole, data l’enfasi clinica del libro sulle terapie ormonali.

Non lo so se Bartolomei ha mai letto Aleteia o la Brizendine. In realtà siamo qui nel campo dell’eterno dibattito di natura contro cultura: le teorie sul genere tendono a occupare il campo della cultura, di questi tempi, quindi gli oppositori spontaneamente tendono a schierarsi nel campo della natura, salvo scambiarsi reciprocamente di posto quando conviene. Se ci si aggiunge che il tipo di argomentazioni gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, paga in termini di visibilità, vendite e riscontro sui giornali anche quando è campato per aria, si comprende come mai questo tipo di argomentazioni risulti totalmente inquinato e quindi, nel mettere le mani avanti al suo discorso sulle relazioni familiari in modo da posizionarsi in maniera evidente lontano da qualunque sospetto di teoria gender ed enfatizzando le differenze strutturali e ineliminabili fra uomini e donne, Bartolomei fa riferimento a posizioni scientifiche quanto meno malferme (a occhio sta anche utilizzando inconsapevolmente teorie femministe eterodosse ma pur sempre piuttosto lontane dai suoi valori; l’enfasi sulle differenze, fra l’altro, è normalmente volta a titillare il gusto delle lettrici in funzione dell’affermazione della superiorità delle donne, una posizione che sospetto Bartolomei possa non condividere). Davvero, la modernità crea strani compagni di letto.

Ma ci si fa poco caso perché siamo all’inizio dello spettacolo e questa parte è divertente: Bartolomei è spigliato, nel suo monologo, gli aneddoti – una collezione di classiche cose da guerra dei sessi in famiglia, lui sul divano, lei che fa cento cose alla volta, lui apre i cassetti e non trova le cose, lei va in paranoia se lui non si mette le pattine – sono spiritosi, il taglio da romanaccio alla Flavio Insinna molto accattivante. Paradossalmente questa parte introduttiva, che non riguarda direttamente il focus dello spettacolo e Chapman, è quella che teatralmente funziona di più.

A questo punto però la struttura dello spettacolo si fa ripetitiva: per ciascuno dei cinque linguaggi dell’amore elencati da Chapman viene presentato un breve filmato negativo, sempre azzeccato, poi prosegue il monologo con gli esempi che Bartolomei prende dalla propria vita familiare e infine chiude la sezione un altro filmato, questa volta positivo (cioè espressivo della corretta modalità di comunicazione), di solito piuttosto insipido e meno preciso della sua controparte negativa. Servirebbe forse molto più il colpo da knock-out (cinque colpi, in realtà, uno per ciascun linguaggio): la battuta o l’episodio fulminante che stampi il concetto in mente in maniera indelebile. Invece questo manca e man mano affiora un po’ di stanchezza e qualche lentezza di troppo. O forse servirebbe, se questa dopotutto è una esposizione di contenuti “didattici”, un tono più colloquiale e meno istrionismo, non so: certo I cinque linguaggi dell’amore beneficirebbe parecchio dell’apporto di un regista professionale o perlomeno di un cosceneggiatore.

D’altra parte è il problema minore. A un terzo dello spettacolo ho detto a Bonaria: «Certo che per essere un discorso sul comprendersi fra coniugi, il punto di vista è molto maschile».

Molto maschile. Per dirla alla romana, era un po’ alla io so’ io e tu… sei solo ‘na moglie, ecco. Uomini e donne c’hanno ciascuno dei difetti, ma gli uomini… meno. Sì, sì, le donne fanno cento cose alla volta e sanno trovare le cose nei cassetti, però, diciamolo, sono delle specie di aliene isteriche fuori dei confini della realtà. Ascoltavo e pensavo al raffronto con Cara ti amo di Elio e le storie tese: anche lì c’è uno sfottò di genere insistito e perfino feroce, ma il sarcasmo è volontario e esibito; sabato invece teoricamente avrebbe dovuto prevalere l’autoironia o la mutua comprensione. Pensavo, in questa fase, che forse lo spettacolo potrebbe funzionare di più con un pubblico tutto maschile, come provocazione per portare fuori pregiudizi ed egoismi, in una specie di cura all’incontrario: elenchiamo tutti i luoghi comuni sulle donne che gli uomini amano scambiarsi – sta sempre là a pulire, vuole i complimenti ma non te lo dice, si tocca i capelli per vedere se ti accorgi che se li è tagliati, cosa c’hai?, niente, come niente?, se mi volevi bene non avevi bisogno di chiederlo – e vedere, dopo una cura da cavallo di qualunquismi del genere, come reagisce il pubblico. Magari a quel punto ci puoi piazzare una parte costruens, chissà.

Solo che non è così, e man mano il maschilismo diventa asfissiante. A due terzi mi sono reso conto che il problema non era il punto di vista maschile, ma la cornice interpretativa delle relazioni familiari, cioè quella di una famiglia tradizionale nella quale la moglie, lavori o no, si deve sfangare pure i lavori domestici e la gestione della prole, essendo – potenza del cervello femminile – naturalmente predisposta alla cura, mentre il marito si fa i cavoli suoi perché deve ricaricare il testosterone, qualunque cosa questo voglia dire, e perché comunque, essendo un povero Cristo normale e non un’isterica a cui il ciclo o l’amore per la cera sui pavimenti scatena reazioni inconsulte, ha diritto a tutta la nostra comprensione.

Il massimo è quando Bartolomei racconta questo aneddoto relativo alla sua famiglia (immagino e spero gli aneddoti siano in effetti fittizi). La moglie deve andare per una settimana a un ritiro con delle amiche, quindi lui dovrà gestire la casa. In una narrazione di una famiglia normale la premessa finirebbe là, invece qui viene specificato che lei prima di partire trova naturale pianificare il mangiare per una settimana e lasciare tutto accuratamente predisposto in frigo, preparare i cambi per i ragazzi e lasciarli pronti eccetera. Così, senza battere ciglio. Comunque, com’è ovvio, la storiella prosegue che appena lei parte lui si dedica allo svacco totale, semidemolisce la casa, fa vivere i figli come selvaggi e infine riesce perfino a ustionarsi con l’olio bollente. Quando torna la moglie ti aspetteresti, in coerenza con uno spettacolo volto, apparentemente, alla buona comunicazione fra i coniugi, che lui le dica qualcosa tipo: «Cara, scusa, non lo faccio più», oppure: «Finalmente comprendo tutta la fatica che fai in casa». Sarebbe coerente con una famiglia di impostazione tradizionale ma anche umanamente rispettoso. Invece la battuta con cui Bartolomei chiude l’episodio è: «Se te ne vai di casa un’altra volta per una settimana chiedo l’annullamento alla Sacra Rota» e insomma, davvero così non va: lo chiedesse lei l’annullamento, povera donna.

E c’è qui il secondo punto, che prima ho rimandato, sul fatto che il riferimento a Chapman dello spettacolo è piuttosto complesso. Perché me lo sono trovato sulla rete e l’ho letto, il Chapman, e trovo che l’interpretazione che ne dà Bartolomeni sia superficiale. Traduttore è traditore, ma qui siamo al sostenimento di posizioni che sono molto oltre il tranquillo, gentile ed empatico tradizionalismo del pastore battista, il quale a un certo punto scrive:

A causa dei mutamenti sociologici occorsi negli ultimi trent’anni, non c’è più nella società americana uno stereotipo comune sui ruoli maschili e femminili. Tuttavia questo non vuol dire che tutti gli stereotipi sono stati rimossi. Vuol dire piuttosto che il numero di stereotipi si è moltiplicato. Prima dei giorni della televisione, l’idea di una persona su cosa dovessero fare un marito e una moglie e di come dovessero relazionarsi era influenzato principalmente dai propri genitori. Con la pervasività della televisione e la proliferazione di famiglie monoparentali, tuttavia, i modelli di ruolo sono spesso influenzati da forze estranee alla casa. Qualunque sia la vostra percezione, ci sono ampie possibilità che il vostro coniuge percepisca i ruoli familiari in maniera in qualche modo diversa da voi. La volontà e disponibilità a esaminare e cambiare gli stereotipi è necessaria se si vuole esprimere l’amore in maniera più efficace. Ricordate, non ci sono ricompense nel mantenere gli stereotipi, ma ci sono enormi benefici nel soddisfare le necessità emozionali del vostro coniuge.

L’impostazione che emerge dallo spettacolo è diametralmente opposta: prima manteniamo gli stereotipi – perché si sa, il cervello è fatto così –  e poi troviamo quel modo di comunicare che riduca il danno e faccia funzionare il tutto il maniera il più possibile sana. Qui lo stereotipo è la sua stessa ricompensa, e non è una differenza da poco.

Alla fine dello spettacolo, siamo andati a mangiare panzerotti pugliesi. Eravamo in sei, tre coppie, cinque cattolici impegnati e un amico laico. Le reazioni variavano dall’imbufalito al perplesso. Nessuno era contento, l’amico laico meno di tutti, anzi francamente scandalizzato. E un po’ ti chiedi: è questa la pastorale che serve?

Io sono, anche se molti non ci credono, un cristiano piuttosto conservatore, del resto mi sono formato sotto Giovanni Paolo II (e nel rigore dell’Azione Cattolica). E quindi, insomma, penso di no.

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