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Le cose che ho imparato facendo il mio gioco alla Global Game Jam

Avrete visto dagli ultimi veloci appunti sul sito e dai post precedenti che nel fine settimana ho partecipato alla Cagliari Global Game Jam 2017.

Preterizione

Quest’articolo non ha lo scopo di parlare dell’esperienza, che comunque è stata davvero bellissima: spero che il video qui sotto renda almeno un minimo della quantità di energia positiva e di divertimento che hanno riempito di due giorni della manifestazione (e, per chi legge l’inglese, c’è un report molto bello scritto da un partecipante).E naturalmente potete dare un’occhiata ai giochi prodotti in tutto il mondo, o guardare il video di lancio, che abbiamo doverosamente mandato in onda allo scoccare dell’ora di inizio:

Colgo anche l’occasione, qui, per ringraziare tutti: i compagni Fabbricastorie e i compagni jammer. Grazie, grazie, grazie, siete stati bellissimi.

Ma veniamo al gioco

Quello di cui volevo parlare, invece, è il gioco che ho fatto, Heat wave. Per un po’ di peripezie mi sono trovato senza squadra e alla fine ho provato a fare un gioco di ruolo ispirato a certi lavori di Jason Morningstar: un gioco di ruolo autoconclusivo, senza master e senza dadi.

Sono molto contento del risultato, e voglio discuterne un po’ qui: non perché ritenga Heat Wave un progetto perfettamente riuscito dal punto di vista della qualità, ma perché è riuscito in quanto progetto. Il successo, cioè, dipende dall’essere arrivato alla fine con un prodotto completo e funzionale, non che Heat Wave, in quanto gioco in sé, sia il risultato che rivoluzionerà il gioco di ruolo mondiale. L’importante è stato finirlo.

Ma prima di andare avanti, forse è il caso che vi spieghi che gioco è Heat Wave.

Heat Wave

Prima di tutto, Heat wave è un gioco narrativo e un gioco di ruolo. I giocatori costruiscono e vivono una storia prendendo, prima di tutto, il controllo di un personaggio base della trama. Rispetto ad altri giochi di ruolo Heat wave non prevede l’uso di dadi e, in realtà, neanche di sistemi per gestire i conflitti fra i giocatori: tutto è lasciato al mutuo consenso su come sia meglio far evolvere la storia. Questo vuol anche dire che non è previsto, al momento, un arbitro: tutto ciò che serve per giocare è nel testo che è fornito ai giocatori e che è, o dovrebbe essere, sufficientemente incalzante da non lasciare spazio perché i giocatori si perdano.

In inglese l'”heat wave”, l’onda di calore, è la calura, quella prolungata, magari accompagnata dalla siccità o dall’umidità oppressiva, quel tipo di condizione che fa impazzire uomini e animali, per la quale, come ho detto quando ho presentato il gioco agli altri jammer, uno torna a casa, prende l’ascia e ammazza la moglie perché gli ha stirato male la camicia.

Ero disperatamente alla ricerca di un gioco sul tema Waves della manifestazione e a un certo punto mi sono ricordato che uno dei gialli di John Sandford dedicati a Virgil Flowers si intitola proprio così, Heat wave. Ho fatto una rapida ricerca su Wiki e ho visto che nel 1954 c’è stata una brutta siccità negli USA centromeridionali. L’ambientazione si adattava bene all’immagine che mi stavo formando (uomini nervosi in canottiera) e così ho deciso che su quello avrei fatto il mio gioco.

E quindi di cosa parla Heat wave? Di una boarding house, una casa malfamata come quella dove vive Orrin P. Quest in The little sister di Raymond Chandler, o le case vittoriane di Bunker Hill trasformate in camere in affitto in The high window sempre di Chandler, alle stamberghe di John Fante (così dichiaro un po’ di fonti di ispirazione). Pensando ai suoi abitanti pensavo alla tensione trattenuta dei film noir dell’epoca: non so se ci sono riuscito, ma insomma miravo a una drammaticità che prima o poi esplode, e quindi gli abitanti della casa (e i vari episodi che li riguardano) sono piuttosto stereotipati, sebbene spero non banali: c’è il padrone di casa iracondo, la sua giovane moglie, il piazzista con un brillante futuro davanti, il servo nero, la giovane immigrata polacca, il soldato che dopo la guerra non ha più trovato un futuro e il tipo losco con un segreto pericoloso.

Detto questo, queste sono le cose che ho imparato, in nessun ordine particolare.

Le cose che ho imparato

  • Far sedimentare, pensare e ripensare

Heat wave non era il gioco che volevo fare. La mia proposta iniziale era un gioco politicamente scorretto e pieno di marijuana intitolato Good vibes. Naufragato quel progetto ho lavorato per un po’ a un’idea di un gioco tutto basato sulla propagazione dei colori, ma anche quello si è rivelato impossibile. E intanto pensavo, ripensavo, scartavo e trituravo. Alla fine l’idea buona è arrivata: basta afferrarne un capo e srotolarla, mettendoci dentro quel che ti piace e quel che sei (per me il noir, Chandler, le storie, Morningstar…).

  • Lottare contro la pigrizia

Il sabato pomeriggio, a un certo punto, mi sono messo a giocare. Ora. Alla Jam bisogna anche imparare a darsi tempi di riposo, a svelenire, a cambiare aria. Avevo l’idea solidamente costituita, in quel momento, e ho deciso di trovare lo stato d’animo giusto per iniziare a scrivere.

Tipo esercizio zen. Crashlands per concentrarsi.

See.

Non è così. Quelle due ore sprecate, che poi magari sono diventate tre le ho pagate, alla fine, oh se le ho pagate.

E, ovviamente, se avessi avuto una squadra non sarebbe successo. Con una squadra non ti perdi.

  • Un buon gioco è professionale e si fa in team

È vero che Heat wave è soprattutto un progetto personale (il testo l’ho scritto tutto io); però fra fare un gioco a fare un buon gioco, completo e con un’aria abbastanza professionale da stare alla pari con i progetti prodotti in tutto il mondo durante la Jam, passa una differenza non da poco. Se devi fare qualcosa che vuoi giocare coi tuoi amici bastano una ventina di pagine su un elaboratore di testi; se vuoi un buon prodotto scopri che ci sono migliaia di cose che ti servono: una copertina carina, una impaginazione curata, illustrazioni, disegni, documentaizone aggiuntiva, la revisione del testo in inglese da parte di almeno un’altra persona, una revisione in termini di game design, il playtesting, una verifica sulla usabilità… e tante altre cose. E questo vuol dire che…

  • Serve un metodo e pensare in anticipo

Io, in realtà, altri jammer che sarebbero stati disposti ad aiutarmi ne avevo. Nei ritagli dei loro progetti, ma li avevo. Solo che non avevo nulla da dargli. Perché scrivevo come mi veniva, di getto, ed era un lavoro estremamente individuale. Se avessi dato a qualcuno la lista dei personaggi, o un soggetto per una illustrazione, o avessi preso il tempo per fare una riunione sulla copertina, poi avrei potuto continuare a lavorare per conto mio e un altro avrebbe potuto lavorare indipendentemente per conto suo. Se mi fossi organizzato. Ma non l’ho fatto e alla fine, quando il mio materiale era a posto, non c’era tempo perché altri preparassero il loro.

  • La grafica serve moltissimo

Fra tutte le cose che io non so fare e che fanno passare un progetto da dilettantesco a professionale, illustrazioni e disegni sono fondamentali. Non tanto perché cambiano l’aspetto e rendono gradevole la presentazione, ma soprattutto perché colpiscono il giocatore/lettore su un altro piano sensoriale: in un progetto come Heat wave hai bisogno di far gustare l’ambiente ai giocatori. Devi dargli lo spunto perché la storia li agganci irresistibilmente e siano spinti a completarla. Devi portarli oltre la soglia e hai a disposizione solo parole. Se alle parole riesci ad aggiungere qualcos’altro, lo schema cambia completamente. Show, don’t tell acquisisce qui tutta un altro significato, un inaspettato campo d’applicazione.

  • E anche la musica, e i ricordi

In un punto cruciale della trama c’è una canzone di Elvis Presley. Non l’ho potuta includere nei file del gioco per motivi di copyright, ma certo quando farò giocare la partita me a preparerò e la farò ascoltare. Ho indicato nell’introduzione una playlist di canzoni del 1954, da mandare in sottofondo, e penso di fare per una versione più avanzata una compilation di suoni d’ambiente: piatti e bicchieri, buzzurri del sudest che chiedono fa bere, cose così. Per lo stesso motivo dei disegni, e per colpire  giocatori di sorpresa.

Ho anche fatto uno sforzo consapevole per mettere nel gioco un po’ di riferimenti evidenti all’epoca: il senatore McCarthy, il citato Elvis, le domestiche nere cacciate dagli autobus, i dibattiti sulla religione – per cercare di far sentire il mood dei peggiori anni della seconda metà del XX secolo: anni bigotti, anni oppressivi, anni disperati: Non so se ci sono riuscito fino in fondo e probabilmente il gioco sarà preso in mano da ventenni che non coglieranno nemmeno un riferimento, ma se vuoi creare un’atmosfera immersiva per i giocatori almeno ci devi provare.

  • Wikipedia è tua amica

Oh, io negli anni ’50 non ero ancora nato. Anche per me sono una terra straniera. Buona parte della decisione di usare quella ambientazione, dopo le prime suggestioni, è stata basata su ricerche intenzionali e successive, rimandi da una pagina all’altra, ricerche su pagine esterne. Non troppo, non in maniera esagerata, ma certo un lavoro determinato e sistematico. Poi, solo poi ho scelto seguendo le mie iclinazioni, Chandler, Fante eccetera, ma prima mi sono organizzato almeno un po’ di materiale.

Non si deve mirare a scrivere una enciclopedia, e certo, essere abituati a fare questo tipo di lavoro di documentazione aiuta a ridurre i tempi; avere un’infarinatura di storia, o essere un po’ un sotutto, aiuta, almeno a fare i collegamenti. Ma il punto è: documentarsi serve.

  • L’importante è finire, senza imbestialirsi

La Jam, avere un compito, aiuta moltissimo a concludere il progetto. E portarlo a termine è un valore in sé: un prodotto finito, utilizzabile, anche se non bello, è meglio di un prodotto incompiuto. Il che comporta scelte: ho rinunciato alla grafica e alle illustrazioni, ho ridotto il numero dei personaggi, ma Heat wave è giocabile.

È tutta un’altra cosa.

Poi avrai sempre la possibilità di migliorarlo, ma se non ci riesci sarà fatto. Nell’altro caso, se dici che lo vorrai finire dopo e non ce la fai, non avrai nulla.

Con tutto questo, nell’ultima ora di Jam non parlavo, ringhiavo. Difendevo il mio spazio e il mio ultimo tempo come il capobranco i cuccioli. Qualcuno ne ha fatto le spese (poco, perché tutti alla Jam eravamo educatissimi): mi scuso.

  • Rileggere, rileggere, rileggere

È increvibile la capacità degi errori di annidarsi ovunque. Oggi ho ripreso in mano il file è ho trovato che, in bella vista, all’inizio, c’è scritto Sommario. Così, in italiano: il porgramma l’ha messo in automatico e io non mi sono accorto. In un punto volevo scrivere but  e ho trovato scritto “ma”: chissà a cosa stavo pensando. Ero convinto di avere usato un inglese corretto e scorrevole: rileggendo, ehm, non è proprio così. Avevo fretta ed è comprensibile: certo, ma non è questo il punto.

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