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Il provinciale va a teatro

La settimana scorsa io e Maria Bonaria siamo stati a Roma per il ponte dell’Immacolata.

Riflettevo, poi, che la nostra vacanza aveva un vago sapore austeniano (vedi alla voce: madamigelle in città per la stagione), nel senso che le nostre attività sono consistite in cose che anche le signorine ottocentesche a Londra avrebbero fatto: abbiamo visitato parenti e amici (a proposito: grazie a tutti!), ci siamo comprati scarpe (Mephisto, adatte ai nostri piedi sofferenti), una cosa che nell’era di Amazon è effettivamente molto ottocentesca, e siamo andati a teatro.

Va bene, siamo andati anche alla Fiera della Piccola e Media Editoria (caotica ma interessante) e a vedere la mostra di Hopper (bella, ma in spazi un po’ compressi e poi non c’era Nighthawks).

Ma l’evento è stato andare a teatro.

Lehman Trilogy me l’aveva aveva segnalato Marco Carlizzi, inizialmente.

Letto sul web, sembrava intrigante: la storia della Lehman Brothers, uno dei fallimenti più noti del mondo.

Solo che poi ti rendi conto che non è un’opera istantanea, sull’attualità della crisi. È proprio la storia della Lehman Brothers, dalla fondazione negli anni ’40 del XIX secolo fino al famoso fallimento. Centosessantanni di storia.

Tra parentesi: sto leggendo il libro da cui è tratto lo spettacolo, Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, ed è bellissimo, una sorta di ballata brechtiana lunga quasi ottocento pagine: ho letto le prime novanta di un fiato e non siamo neppure arrivati alla Guerra di Secessione.

Va beh, sarà condensato, pensi.

Non tanto.

Perché l’originaria struttura tripartita del libro di Massini è trasfusa in due spettacoli collegati ma indipendenti: il primo è di due ore e mezzo, il secondo di poco meno di due ore.

E si possono vedere separatamente (teoricamente anche prima il secondo del primo) oppure tutti di filato: con una mezz’ora di pausa sono quasi cinque ore di teatro.

Una roba scespiriana, quando la gente campeggiava a teatro dalla mattina presto.

Ed è anche l’ultima regia firmata da Luca Ronconi, per cui ci diciamo con Bonaria: «Andiamo?», «Andiamo!».

Potremmo vedere i due spettacoli in due sere diverse, ma alla fine pensiamo che è meglio giocarsi una sola serata e lasciare spazio a qualche tempo in più con gli amici, quindi optiamo per l’impresa: dalle diciannove a mezzanotte.

Al Teatro Argentina. Bellissimo.

In un palco. Che io avevo sempre creduto che il palco fosse qualcosa di privilegiato, e scopro invece che è considerato, chissà perché, una cosa di seconda scelta.

Eppure nei romanzi ottocenteschi il conte Polidoroff incontra sempre la marchesa Anastasia nel suo palco di famiglia, mi pare di ricordare.

Finché le due meger…, ehm, anziane signore aduse al teatro, che condividono il palco con noi, non ci si piazzano davanti senza complimenti e io realizzo che il conte Polidoroff con la principessina Ivana ci stava da solo, nel palco, guarda un po’.

E io che mi sono preparato religiosamente e un po’ trepidante allo spettacolo: non ho neppure cenato, per timore dell’abbiocco e di addormentarmi (retrospettivamente, le scomodissime sedie del palco l’avrebbero impedito e il mio stomaco non avrebbe brontolato in maniera imbarazzante).

Sullo spettacolo in sé non dirò (quasi) niente, per una volta, se non per segnalarne la complessità: il testo (che è quasi quello del libro, sebbene opportunamente scorciato) tesse magistralmente insieme un mondo di cose: c’è il farsi del capitalismo americano e l’America stessa come terra di emigranti, la cultura ebraica, le relazioni familiari, il mondo tutto maschile dei Lehman, la crisi del ’29, il senso della vita e degli obiettivi che si perseguono nelle sue varie fasi, il destino delle imprese familiari, il capitalismo sfrenato dopo il 1980. Ronconi lo ha messo in scena in maniera rigorosa, oggettiva e severa ma non gelida (e il pubblico volentieri ride in diversi momenti e applaude quando arrivano i grandi monologhi) e gli attori erano tutti bravissimi. Un grande spettacolo. Grandissimo.

Ecco, un grande spettacolo.

Un po’ mi è venuto da dire, a mezzanotte, affamato, sveglissimo e con ai piedi un paio di scarpe nuove Mephisto appena comprate, che era il più grande spettacolo teatrale che avessi mai visto.

E un po’ mi sono sorpreso. Non vado molto a teatro, ultimamente – perlomeno non al “grande” teatro di prosa – ma ci vado comunque di tanto in tanto e ci sono stati periodi della mia vita nei quali ci sono andato davvero spesso. E ne guardo al cinema e in televisione. In vita mia ho visto dal vivo, per dire, Lindsay Kemp e Pina Bausch, e il Teatro dell’Elfo e un zilione di attori italiani importantissimi e compagnie straniere particolarmente sperimentali. Nella provinciale Cagliari.

Eppure uscendo mi sono sorpreso a scoprirmi sorpreso.

Potenza dell’andare in città per la stagione.

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