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Postmortem, che brutta parola (o del come si fa una verifica o debriefing) – 1: la verifica

Ho raccontato tempo fa che in una riunione relativamente recente di Banca Etica ho usato un’espressione forse fuorviante.

In realtà non è la prima volta (Roberto, fatti delle domande!). All’Assemblea di maggio 2015, nella quale si discuteva di riforma del regolamento elettorale, dissi che secondo me: «quando il processo sarà finito occorrerà farne un postmortem».

Ora: postmortem è un’espressione comune nel mondo dei game designer, dove indica la sintesi dei punti di forza e delle debolezze di un progetto, valutato una volta che è stato concluso con la pubblicazione del gioco (Gamasutra ne pubblica a decine, come contributo alla conoscenza condivisa della comunità: le lezioni apprese da me faranno fare giochi migliori agli altri). In inglese voleva dire originariamente solo “autopsia”, naturalmente, ma il significato si è allargato a indicare qualunque valutazione di un evento o processo fatta poco dopo la sua conclusione (così l’Oxford e il Merriam-Webster). In assemblea diversi mi guardarono con occhi sbarrati (qualcuno, secondo me, fece anche gli opportuni gesti di scongiuro) e il Presidente mi interruppe per dire che postmortem proprio non si poteva sentire.

L’interesse per il tema però mi è rimasto e nel tempo ho accumulato un po’ di materiale, considerato anche che è parte dell’argomento più generale del funzionamento dei gruppi che mi ha sempre appassionato; l’interesse recentemente è ulteriormente  aumentato e ho ripreso le ricerche facendo anche delle discrete scoperte rispetto alle cose che credevo di sapere.

Ho pensato quindi di fare un articolo che raccontasse il tutto, anche calcolando che la pagina dedicata a raccogliere più materiali possibile sull’argomento della democrazia partecipativa è tutt’ora una delle più visitate del blog e che ho parlato altre volte delle metodologie attive e del loro uso nelle grandi organizzazioni. Anche l’articolo recente sull’invocare il delta nei momenti operativi difficili deriva dal materiale accumulato in questo periodo.

Ma prima, torniamo alla base: ai bei vecchi tempi dell’Azione Cattolica.  Come dice il mio socio e compagno Fabbricastorie Andrea Salidu, a quei bei tempi noi eravamo davvero avanti.

Ciclo di lavoro e verifica

E dunque nell’Azione Cattolica, ai bei vecchi tempi, si diceva fare la verifica.

La verifica era l’ultima fase prevista dallo schema base di lavoro che si insegnava nell’AC degli anni ’80 e ’90, come pure in migliaia di altre organizzazioni.

Il quale schema base era una delle tante popolarizzazioni fatte da Note di pastorale giovanile di materiali elaborati in contesti diversi da quelli ecclesiali (come era capitato con il buon vecchio Jelfs), e seguiva una logica circolare: 1) Analisi della situazione o esigenze, 2) Definizione degli obiettivi, 3 ) Scelta degli strumenti, 4) Verifica. Dalla verifica discendeva una nuova analisi della situazione e così via.In realtà il nostro schema, rispetto ad altri come il modello a cascata dei programmatori, non si caratterizzava solo per la circolarità ma anche perché nella fase dell’analisi si apriva alla dimensione dell’ideale, dei valori e delle aspirazioni (che noi riassumevamo come Parola di Dio): una precauzione necessaria non solo nel lavoro ecclesiale o educativo ma in generale, perché la semplice valutazione della realtà – poniamo: manca il lavoro – può indurre a soluzioni aberranti come certi provvedimenti in materia lavorativa del Governo – poniamo: manca il lavoro quindi eliminiamo i lavoratori, dopo tutto anche questa è una soluzione.

Mi prendo ancora un attimo di tempo in questa divagazione per raccontarvi che, di fatto, la nostra tensione nell’adoperare questo modello di solito si collocava sul lato di destra del cerchio, per esempio nell’eterna insistenza che prima si devono definire gli obiettivi e poi decidere quali strumenti usare. Al contrario animatori sprovveduti e viceparroci molto convinti di sé di fronte a qualunque problema di solito avrebbero proposto: «parliamo della parabola dei talenti», oppure: «usiamo questa tecnica di animazione fighissima che ho visto fare da poco nella parrocchia vicina», o cose del genere. Qualunque fosse l’argomento. Conosco un animatore che per tutta la vita, appena lasciato libero, ha sempre proposto la stessa parabola in ogni occasione. Per venti anni. Poi si è modernizzato: adesso usa sempre le slide. Il giorno che si modernizzerà fino a usare i video di YouTube stapperemo lo champagne.

O forse no.

Anche sul lato sinistro, però, le verifiche – che doverosamente si facevano sempre – avevano talvolta i loro bei problemi che ho provato a riassumere qui sotto.

Scusate se mi dilungo: in realtà sto mettendo fieno in cascina per dopo: è tutta roba che servirà.

Quando la verifica falliva

  • Verifiche impossibili: gli obiettivi sono stati posti in maniera tale (generica, indeterminata…) che non è possibile verificarli a posteriori.
  • Verifiche insignificanti: le opinioni raccolte sono irrilevanti rispetto agli obiettivi da verificare (un caso classico: immaginate se all’esame di maturità si chiedesse: «Ti è piaciuta la scuola?»).
  • Falso stakeholder: la verifica è affidata ai soggetti sbagliati. Per esempio, per rimanere all’esame di maturità di cui sopra, allo studente si può chiedere se i libri erano chiari, il docente appariva competente, gli orari scolastici bene organizzati e così via. Ma se gli si chiede: «Secondo te è meglio studiare latino o matematica?» si sta compiendo uno slittamento di piano che è scorretto (notate che invece chiedergli, due anni dopo: «Per i tuoi studi universitari/sbocchi lavorativi, ti è stata più utile la matematica o il latino?», è perfettamente corretto).
  • Verifiche emozionali: in molte attività formative, per esempio quelle svolte con soggetti fragili, oppure in certe occasioni terapeutiche, è uso al termine della giornata dare spazio alla dimensione emotiva (per esempio invitando tutti a rispondere alla domanda: «Come mi sento?»). Si tratta di attività utili, funzionali a dare sfogo alle emozioni personali, a fare gruppo, a favorire la comunicazione interpersonale e l’apertura agli altri, a dare la possibilità di chiedere aiuto o di riceverlo, essere rassicurati… ma è importante ricordare che non è una verifica dell’attività (anche se il formatore può trarne utili informazioni sull’andamento del gruppo e sulla situazione personale dei soggetti). Peggio ancora quando il formatore, in contesti “normali”, si concentra sulla risposta emozionale o affettiva che riceve trascurando di rilevare i risultati organizzativi o metodologici dell’attività svolta. Che la gente sia stata bene, che sia contenta, è probabilmente una condizione necessaria per il successo di una attività formativa ma non è certamente sufficiente e il formatore che si accontenta di questo sta probabilmente barando con se stesso e con gli altri.
  • Assenza di metodologia: la verifica è svolta in maniera disordinata, confusa, o poco chiara. I partecipanti o gli organizzatori divagano e i contenuti apportati non sono inerenti all’attività svolta o non sono comprensibili.
  • Assenza di decisioni conseguenti: la verifica indica un certo numero di possibili piste di lavoro successive (esempio: migliorare qualcosa, sfruttare nuovamente un’idea che si è rivelata vincente) ma queste non vengono evidenziate  o discusse sufficientemente oppure nessuna decisione in merito viene presa e successivamente le possibili raccomandazioni sono dimenticate o scartate, magari a causa di altre attività che incombono.
  • Rifiuto di accettare verità scomode: la verifica rivela dei fallimenti e per evitare di affrontare la realtà gli organizzatori o conduttori di tema si trincerano dietro particolari secondari o insignificanti (un altro caso reale: «Abbiamo perso centinaia di iscritti in pochi anni, ma noi della Presidenza siamo stati capaci di superare i nostri contrasti»), oppure come detto sopra scelgono la deriva emozionale (come se, dopo che tutti gli studenti sono stati bocciati all’esame di maturità, famiglie o docenti si dicessero: «Beh, però gli abbiamo insegnato a vivere»). Nell’Azione Cattolica questo talvolta ha preso la forma della frase: «Beh, noi seminiamo, ma poi è tutto nelle mani del Signore».
  • Verifica strumentale: ci sono tensioni nel gruppo di lavoro o nell’organizzazione e, per mancanza di altri luoghi di gestione del conflitto, queste trovano sfogo nella verifica di una attività puntuale, quando in realtà si dovrebbe mettere a fuoco il funzionamento complessivo dell’organizzazione, la divisione dei ruoli, gli assetti di leadership eccetera. Spesso emergono visioni contrastanti sul successo o l’insuccesso di una iniziativa ma in realtà si sta rivelando che si avevano visioni differenti sul senso o gli obiettivi da porsi, oppure semplicemente si usa una specifica attività per regolare conti generali.

La verifica come esercizio di sé o come processo?

Per evitare questi rischi si usavano tecniche e esercizi diversi: Jelfs e Mucchielli ne riportano un certo numero e altre sono pubblicate in testi più recenti mentre cose abbastanza utili e raccolte di materiale tratto da quelli e altri libri si trovano in rete, spesso come sopravvivenze dell’epoca, come un utile Dossier Verifica (molto ben) fatto dagli Scout del Piemonte nel 1995. Si tratta normalmente di esercizi, più che di processi di lunga durata.

Cosa intendo dire? Facciamo un esempio.

26. Pagella di verifica ( Martin Jelfs, Tecniche di animazione, ELLEDICI 1986)

Obiettivo. Fornire un feedback sulle tecniche e sugli incontri; abituarsi alla verifica per apprendere dall’esperienza; imparare ad esprimere le proprie impressioni e a dare dei suggerimenti creativi.

Materiale. Carta e penna per tutti, oppure grandi fogli di carta (carta da pacco, o retro di cartelloni usati), sostegni o pareti per appendere i cartelloni, puntine da disegno e matite colorate, grandi pennarelli di vari colori.

Tempo. Variabile.

Procedimento. Stendere un elenco di ciò che si è fatto durante un’attività e chiedere che ciascuno classifichi ogni voce in una graduatoria da -2 a +2, sia dal punto di vista dell’efficienza che della gratificazione. Questo potrebbe essere fatto individualmente o utilizzando un cartellone, e invitando ciascuno a scrivere il proprio voto in una colonna, in modo che i totali di ciascuna sezione diano una specie di valutazione complessiva.

Di esercizi come questi il Jelfs ne propone una mezza dozzina, Mucchielli un altro po’, il Dossier Verifica degli Scout di cui sopra ne aggiunge ancora un’altra mezza dozzina, e così via. Raccogliendole tutte e facendosi il proprio repertorio si ha senza dubbio un ventaglio di tecniche adatte alla maggior parte delle occasioni e dei gruppi.

Perché però parlo di esercizi? Rileggendole, mi convinco che in realtà servono molto di più a costruire uno stile di vita e di disciplina di gruppo (l’idea che ci si debba verificare è un’idea molto forte che ben presto informa di sé molti aspetti della convivenza comune), a favorire la coesione e la vitalità dell’azione – tutte cose molto augurabili che il suddetto Dossier Verifica spiega molto bene:

Per poter valutare, è particolarmente importante comprendere le basi teoriche e i modelli di azione, quali la verifica e relative tecniche di animazione, per poter lavorare in un gruppo in maniera coesa, ricercando insieme gli obiettivi e i modi adeguati di lavoro all’interno di un processo più ampio di accettazione, di assunzione di responsabilità e ruoli positivi, di azione socio-politica e dell’instaurarsi di una cultura di pace.

La verifica può essere inoltre utile nel creare un senso di comunità: può essere occasione di espressione per ognuno, con i propri linguaggi, offrire possibilità di dialogo, stimolo alla discussione, all’ascolto, al comprendere a all’essere compresi. La valutazione positiva e l’apprezzamento reciproco stimolano il senso comunitario.

Infine la verifica comporta un esercizio e una pratica continua di microanalisi che consentono di formulare generalizzazioni ai fini di una comprensione di eventi di più vaste dimensioni o dell’elaborazione di una teoria.

Il problema però è che si tratta, in tutti questi casi, di effetti indiretti. Ma se più specificamente si vuole fare la verifica di una attività, trarne una valutazione oggettiva e ricavarne linee guida per riavviare un nuovo ciclo del processo di programmazione, queste tecniche possono non bastare, perché è necessario che siano inserite in un processo – chiamiamolo di learning by doing organizzativo o di miglioramento continuo o di ricerca della migliore qualità – un processo nel quale dalla verifica si traggono delle conclusioni che vengono utilizzate effettivamente come base delle attività successive. In una tecnica come la Pagella di verifica ci si concentra su cosa fare durante la verifica, ma ciò che succede dopo non è chiaro. Esistono naturalmente un gran numero di processi aziendali come il lean management che risolvono il problema più o meno brillantemente, ma questi non sono facilmente impiegabili in gruppi o piccole organizzazioni, nelle realtà a movente ideale o comunque fuori dell’ambito industriale o aziendale.

Sistemi informativi

Una nota a margine: è del tutto assente da queste riflessioni – o è dato per scontato – il processo di monitoraggio in itinere di una attività: la raccolta, cioè, delle informazioni sul suo andamento mentre la si svolge, il controllo che le varie fasi siano svolte correttamente, e così via. Questo tipo di monitoraggio non è alternativo alla verifica finale, naturalmente, e dipende dall’esistenza di un sistema informativo efficiente che fornisca a chi gestisce l’attività, passo dopo passo, i riscontri necessari. Non ne parlo, in parte perché anche in letteratura c’è una divaricazione molto forte fra le riflessioni su verifiche, debriefing postmortem da una parte e quelle su sistemi informativi e di monitoraggio dall’altro, e in parte perché ho in mente organizzazioni (dal gruppo parrocchiale all’organizzazione di volontariato di media grandezza fino all’organizzazione territoriale dei soci di Banca Etica) e  tipi di attività (singoli processi, non il funzionamento complessivo dell’organizzazione) per le quali si può supporre che il sistema informativo sia piuttosto semplice e posto in essere in maniera immediata: se stiamo organizzando un campo scuola possiamo sapere con una certa immediatezza se è stata trovata la casa che ci ospiterà, quanti posti ha, quante persone si stanno iscrivendo, se i relatori hanno tutti confermato la presenza, se è stata fatta la spesa e così via.

Naturalmente questa semplicità può essere ingannevole e può capitare di fare errori anche gravi: ai bei vecchi tempi dell’AC si faceva la spesa per il mangiare senza troppo calcolare la quantità di quote di partecipazione ricevute, e spesso si andava in rosso e occorreva tassarsi per rimpinguare la perdita; è ovvio che man mano che si aggiunge complessità la possibilità di errori, potenzialmente tali anche da compromettere il buon andamento dell’iniziativa, aumenta esponenzialmente: però insomma mi pare che una differenza fra la Toyota e il campo scuola magari ci sia e quindi i sistemi informativi li do per presupposti senza trattenermi: al limite su questo argomento farò un altro articolo in futuro.

Tornando a bomba

Quello che mi chiedevo, insomma, era se esistesse un modo di condurre le verifiche delle attività che potesse essere inserito armonicamente in un processo generale come quello circolare che ho descritto all’inizio e che spostasse l’enfasi dall’analisi in sé dell’attività alla utilizzabilità di quanto scoperto nella vita dell’organizzazione successivamente alla conclusione dell’attività verificata.

Metto le mani avanti: non sono sicuro di avere trovato la risposta corretta. Però ho fatto un sacco di scoperte.

L’eclissi della verifica

La prima è che, da un punto di vista terminologico, mi sembra si parli sempre meno di verifica. Per trovare qualcosa di interessante su Google, per dire, occorre farsi largo attraverso una selva di informazioni rivolte ai docenti su come gestire la verifica scolastica: un senso molto specifico e settoriale. Ci sono anche verifiche fiscali, audit interni e esterni, verifiche di ipotesi scientifiche e altre cose del genere, ma la verifica come parte del processo associativo-organizzativo sembra essere scomparsa.

Emerge anche una certa strumentalità: per esempio nel cooperative learning che sembra andare molto di moda in certi ambienti para-ecclesiali la verifica è apparentemente di tipo orizzontale (gli individui verificano se stessi e gli altri, gli individui verificano il gruppo, o il gruppo verifica sé stesso) ma in realtà è funzionale al fatto che l’insegnante o educatore possa dare i voti agli studenti.

In un certo senso la verifica è sempre una pratica democratica o di empowerment, perché non è rappresentata dal capo che distribuisce premi e punizioni alla fine dell’anno ma si fa in comune e quindi permette ai componenti del gruppo o dell’organizzazione di esprimere se stessi e di agire sulla vita collettiva. Quando qualcuno dice: «Facciamo una verifica» o anche semplicemente: «Parliamone» sta facendo una petizione per essere ascoltato mentre dice qualcosa che ritiene significativo sull’esperienza che fa con gli altri; se la verifica si farà, indipendentemente dai suoi esiti, quella persona avrà avuto perlomeno la possibilità di prendere la parola e farsi ascoltare.

Che la verifica oggi sia intesa come giudizio, spesso che cala dall’alto, come voto o come ispezione o certificazione rappresenta uno slittamento semantico non da poco e, secondo me, l’ennesimo segnale dell’impoverimento culturale causato dalla sbornia aziendalista degli ultimi vent’anni. Il discorso però ci porterebbe lontano: accontentiamoci di dire che, data la situazione, occorre rivolgersi ad altre espressioni e ad altre pratiche.

Per esempio il debriefing.

Fine della prima parte – continua (spero)

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